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Stand 09.11.2011



Persen
Racconto
Pubblicato in: Ad alta voce. Alpha & Beta Editore, 2011.
Traduzione di Aldo Mazza e Dominikus Andergassen




Era una brutta storia. In realtà le storie erano due. Erano state. Ma così come spesso accade con le storie, queste hanno la caratteristica, l’impulso, se si vuole, di trasformarsi incontrandosi. Si attorcigliano, vorticano, si intrecciano. Cosicché alla fine è diventata veramente una brutta storia, quella che è successa. Per questo, quando era ormai accaduto quello che è accaduto, così come nella vita, essa è doppiamente passata e finita. Non averci mai a che fare con le storie. Le storie, lo stesso se brutte o belle, al contrario che nel resto della vita, non finiscono mai, ed alla fine non hanno una fine. E questo è bello. Anche nelle brutte storie. Come questa. Finché vengono scritte.


E adesso gli aveva fatto arrivare una cartolina sulla quale, poiché per mesi interi l’aveva seguita nel suo viaggio, c’erano tre indirizzi diversi, due dei quali barrati, una veduta un po’ sbiadita del porto di Livorno visto dalla Fortezza Vecchia, con le parole: Fratello, dove ti trovi adesso? O brother, where art thu? Nessun intestatario, nessun saluto. Nessuna data, nessun mittente. Eppure, naturalmente, sapeva da chi arrivava la cartolina. E annotò su un suo foglio a lettere di piombo: e adesso?
Oh Fratello, queste erano state le prime e le ultime due parole, che l’altro, che suo fratello non era, gli aveva dette, ma anche allora niente di più che queste due parole.

Lui, appena quattordicenne e da quattro anni in affidamento in una casa di estranei. Da quando, sulla Puflatsch, un fulmine aveva colpito sua madre, mentre correva alla cieca lungo un pendio dietro alle mucche in fuga da un temporale. Di colpo completamente orfano e poi in affidamento presso una famiglia, il cui unico figlio, poco tempo prima, diciassettenne, aveva lasciato la casa del carabiniere tedesco Johann T. per svignarsela ad Amburgo e da lì in mare, come si mormorava scuotendo la testa nel paesino di mezza montagna, insieme a storie riportate intrise di pirati, e, come si potè constatare successivamente, quando, quattro anni più tardi, lui, cioè l’altro, venne di nuovo a casa per venti minuti, effettivamente marinaio, Johann, e di transito tra uno sbarco a La Spezia ed un imbarco a Rotterdam.

Quando la monaca fuggita, a cui dalla Casa Grigia era stato affidato il compito di distribuire quotidianamente la posta, in modo che avesse qualcosa da fare e qualcosa da leggere, gli aveva consegnata la cartolina, erano passati nove anni dall’inizio della storia ed era come dimenticata; venti minuti avevano trascorso insieme, loro, i due fratellastri, e proprio questo oh fratello, che non aveva mai del tutto compreso come era inteso, e da allora nessuno aveva sentito più niente dell’altro, e perché poi.

(...)

Calura tremolante sopra la piazza. I perginesi, di solito più tedeschi dei tedeschi, come i meridionali spariti nei ripari bui. Sempre la cartolina e il libro davanti a sé. Nel libro i fogli degli appunti.

Fratello, dove ti trovi adesso? O brother, where art thu?

E se ti riguardasse, tu fratellastro tu, non te lo saprei dire. Mandato dal Ministero della Difesa nella Casa Grigia, senza possibilità di opporsi. Ictus. Di colpo. In una città, che è un paese, nel quale non eri mai stato, ma il cui nome si conosce al più tardi dalla prima elementare, come uno sputo: Pergine, lì devi andare: Bertschine.

Persen. Fersina. I nomi delle frazioni memorizzati subito all’inizio, il bollettino comunale in bella mostra, nient’altro da fare, per di più un buon nascondiglio, un foglio di carta del genere davanti alla faccia. Assizi, Canale, Canezza, Canzonino, Cirè, Costasavina, Fontanabotte, Ischia, Maderei, Masetti, Nogaré, Roncogno, San Cristoforo al Lago, Santa Caterina, Serso, Susa, Viarago, Vigalzano, Visintainer, Zava, Zivignano.

Arrivo il tredici giugno.
Adesso è l’otto agosto.

E la cartolina. Deve essere lui, aveva pensato. Solo lui può essere. Chi altri. E aveva pensato: questa adesso, la cartolina, è da tempo immemorabile in viaggio. Qualunque cosa l’altro avesse voluto, ormai era caduta in prescrizione. Anche se solo per frazioni di anni.

E lo sapeva, non erano le vituperate Poste Italiane, le PP.TT., che avevano causato questo disguido.

Lo sapeva di prima mano, sulla propria pelle, anche qui un anno e mezzo, niente cabala, puro caso dovuto alle norme di legge, il primo giorno allo scadere dei diciotto mesi avrebbe avuto, teoricamente, diritto ad un posto fisso, quindi era stato licenziato il giorno prima, per un anno e mezzo, per diciotto mesi a inizio turno, la mattina alle sei, il pomeriggio alle due, la sera alle dieci, prima di tutto stava in piedi con i colleghi davanti al casellario di legno nel capannone industriale sopra la stazione, e la buca, la raccolta delle casette postali che colava dai sacchi di tela grigi, lettera per lettera e cartolina per cartolina, per un’ora, a seconda della stagione anche due, con un colpo rapido del polso sparava dritto nel casellario di legno ottoperdieci, spara, spara, spara, seguendo i codici postali, e, con Ermete e San Gabriele, c’erano delle lettere tra queste il cui indirizzo sicuramente non avrebbero potuto leggerlo nemmeno i mittenti: il loro sport però era proprio decifrare, anche se poteva durare giorni e consultazioni durante la pausa pranzo del turno di notte, per la quale ognuno di loro a turno portava da mangiare e da bere, perché la mensa era ormai chiusa alle due del mattino, era ogni volta una gara, quali salsicce fatte in casa e quale vino di produzione propria, quale di questi avrebbe prevalso, eccetto il vino del caposala: quello era fuori gara.

Il resto del turno davanti alla codificatrice, turno dopo turno dodicimila codici postali battuti sulla tastiera di questo mostro elettrico eternamente guasto, dodicimila dopo tre settimane di pratica, questa era l’immagine che vedeva davanti a sé, come su uno schermo, non era altro che un’automatizzazione della parte anteriore del cervello, quella posteriore inerte, grazie a dio. Quindi sessantamila cifre a turno. Sempre che la macchina non avesse bisogno di manutenzione. In tal caso mai stare lì ad aspettare il tecnico. Veniva da Milano, se veniva. Quindi: ascoltare, chinarsi sulla macchina, bussare, scuotere, agitare. La macchina, un fragile sistema a più piani di nastri gommati a cinquecento giri al minuto, aria compressa aspirata, molle guida, nastri trasportanti che si muovono verso il basso e una tastiera. Nel cuore quattro lampadine a incandescenza perché l’addetto legga i numeri di codice postale, prima di batterli sulla tastiera. Dodicimila a turno. Lampadine di ricambio non ce ne sono. Finché non si scopre: sono lampadine anabbaglianti di vecchi modelli FIAT. Quindi abbandona la macchina, il caposala ed il posto di lavoro, va alla FIAT e si compra alcune lampadine di riserva. Sarebbe un motivo di licenziamento. Non viene licenziato. E salva la vista. (Nella vita si vorrebbe anche leggere altro che codici di avviamento postale. Anche se questo in larga misura e ancora di là da venire.)

Di mattina alle sei dopo il turno della notte attraversando la piazza della stazione verso casa nella notte invernale, cosa che in certi ambiti di clero elitario della città gli aveva procurato la nomea di prostituto, chissà poi perché, da dietro quali cespugli lo osservavano sbavanti, quelli che sapevano dei suoi itinerari notturni, niente altro che una sancta simplicitas; sulla strada eventualmente una birra nel caffè che stava giusto per aprire, gomito a gomito al banco con il caporedattore, appena al suo primo bianco della giornata e non ancora pronto per una collocazione politica.

Tutto già da tempo svanito, anche se solo da settimane nemmeno a due ore di treno, lontanissimo. Come Livorno, la città del porto.

Lì vicino, invece, la calura secca, che aleggiava sopra la piazza vuota. E i fogli degli appunti nel libro. L’accaduto della notte passata.
Dal suo primo giorno di lavoro nella Casa Grigia, aveva sempre preso appunti, in una scrittura minuta, come poi dopo qualche tempo notò con sorpresa, di solito infatti scriveva con una grafia molto più grande, adesso la scrittura qui così piccola, come se fosse in codice. E già al secondo giorno aveva annotato: sedendo con loro in giardino (affinché nessuno scappasse): mettiti a scrivere, non importa cosa. Leggere libri ti rende attaccabile. Uno che scrive, però, è in una posizione più forte, perché tutto, perlomeno la parte che sovrintende al tutto, ha paura, di apparire a sua volta nello scritto. Al di là della sua immaginazione. E probabilmente per questo minaccioso.

Così scaturivano le frasi più disparate, che spesso non dicevano nulla e raramente avevano a che fare l’una con l’altra. Finché, più tardi, non le rileggeva.

La giornata è il mangiare, e il tempo in mezzo è il nulla. Mangiare. Nulla. Mangiare. Nulla. Mangiare. Nulla.

Pergine da un lato ha due colline.
Su una, una croce.
Sull’altra un castello.
Pergine dall’altro lato ha un manicomio.
Per legge da non molto tempo sono stati in realtà aboliti. Chi ci sta ancora dentro, la legge e l’Amministrazione lo chiama residuo psichiatrico.
Pergine ha un Ospedale Ricovero S. Spirito nel quale una parte dei matti è stata spostata.
A Pergine una persona su due ha un Kaiser a casa.

Un Kaiser su due ha un perginese a casa, scrisse sotto. E lo cancellò.

Perché ogni volta lei urla, forte e profondo, se qualcuno, e lo si fa in continuatione è uno spasso, per provocare il suo orrore, se qualcuno dice: Ti porto al mare? No, no, non vago, urla lei. Ti. Non vago, no.
Bisogna aver fede, dice una, così come si dice: è così.
Ma, dice Arturo, la fede è una mania ereditaria.
Dici?, dice lei.
Ma sì, dice lui. Non vedi come siamo ridotti qua.
Animazione culturale. (Aveva annotato il primo giorno: cosi chiamavano, quello che avrebbe dovuto fare, se qualcuno almeno lo avesse saputo, cosa si intendesse con ciò. Nessuno lo sapeva.)

(...)


da Alto Adige, 27.02.2011

Lanthaler: un racconto sullo spettro della follia

(...)
Kurt Lanthaler, l'autore di «Persen», è bolzanino di nascita, ma vive da più di venticinque anni a Berlino. È autore originale ed estroso, di non facile comprensione nella struttura delle sue opere più che nel lessico, a cui piace giocare con le storie ed intrecciarle. «Persen» è la storia della vita solitaria di un ragazzo, il cui unico forte legame è quello con il fratellastro Tschonnie Tschenett marinaio giramondo con il quale ogni tanto si ricongiunge. Sullo sfondo il tema della follia, della paura di finire in un manicomio, siamo a Pergine («Persen» in italiano è Pergine) negli anni '80 e l'eco della vecchia struttura psichiatrica esiste ancora.
Lanthaler, che è anche artista e traduttore, è autore prolifico. Ha al suo attivo sei romanzi (gli ultimi tre sono «Azzurro», «Napule», «Das Delta») e due sono in fase di elaborazione, tre pezzi teatrali, il libretto per l'opera «Rasura» e per il musical per bambini «Tschelatti», una raccolta di poesie «Offene Rechnungen». Ha inoltre tradotto in tedesco due romanzi del napoletano Peppe Lanzetta ed uno del palermitano Roberto Alajmo.
Quando gli abbiamo chiesto cosa significa per lui «raccontare il sociale» ha risposto «proprio niente. Si possono, o meglio io posso raccontare delle storie e queste parleranno sempre di uomini, di situazioni (anche sociali), di condizioni di vita e di motivi che spingono alla rivolta. E d'amore e d'odio». Per Lanthaler non esiste la categoria sociale. Quando gli è stato chiesto quale sia nel suo racconto il tema sociale preponderante fra solitudine, miseria, sfruttamento e malattia, ha risposto «la vita». Come a dire che il sociale e la vita sono la stessa cosa. (c.s.)




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