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Stand 09.03.2011



Crepacuore (DDR)


Romanzo.  Haymon Verlag, 1995. Diogenes Taschenbuch, 2000

Traduzione di Susanna Piccoli


Prologo

Ad un certo punto verso le 4 del mattino avevo preso la mia decisione. Dopo che per ore ero rimasto seduto sul letto a fissare il vuoto. C’era qualcosa che andava nel modo sbagliato. C’era qualcosa che non era sotto controllo. Dove facevo la mia comparsa entro breve tempo moriva qualcuno. Questo fatto doveva avere una qualche spiegazione.

Vista da oggi questa sicurezza, che nell’aprile 1992 mi aveva travolto all’improvviso come una slavina di polvere, è un fatto estremamente illusorio. Con il senno di poi penso che avrei potuto evitare alcune delle cose da raccontare se avessi dato retta al comune senso della ragione. Solo che allora ero più giovane di un paio d’anni. E proporzionalmente più stupido. E poi soprattutto: allora non avevo ancora sperimentato quanto poco possa bastare per togliere di mezzo un uomo. Due conti in banca, un colletto più o meno bianco, un collegamento satellitare e un margine di guadagno che superi di alcuni punti decimali ciò che chiamano perdita. Questo è sufficiente. Non avevo voluto crederlo. E allora mi ci hanno fatto sbattere il mio naso impiccione piuttosto duramente.




Capitolo I

Era da tanto che non facevo così fatica a salire sul camion. Il terreno non mi mollava, la macchina non mi lasciava salire.
„Tschenett", dissi, „Tschenett, parti. Cosa c’è che ti trattiene?"




Capitolo II

Berta aveva di nuovo regalato la sua ultima canottiera. Vabbé, penultima.
La cara Berta. Chi non sapeva come stavano veramente le cose avrebbe potuto pensare che si lasciasse abbindolare senza cerimonie da un buono a nulla come me. Grazie ai miei occhi neanche poi così blu. Non era per niente così. La faccenda stava in modo completamente diverso. E talmente complicato che nessuno sapeva come funzionasse.
Avevo voluto offrire una cena. A Berta, la proprietaria sessantasettenne e unica forza lavoro in questo bar non del tutto legale della sperduta valle di Fleres. E a Totò, che con i suoi trent’anni passati da poco era più giovane di me di qualche anno, che però, in compenso, faceva lo sbirro nella Polizia di Stato.

Offrire una cena, per me non significava agitare una di quelle tessere magnetiche, gridare paga il vecchio e prendere a calci il cameriere quando solo era possibile. Offrire una cena significava: apparecchiare. Cucinare. A me serviva per tenere i nervi sotto controllo e finora gli altri erano sempre sopravvissuti.
Per questo motivo, e poi perché non sapevo se mi sentivo particolarmente male o particolarmente bene, avevo deciso di offrire una cena. Senza prima chiedere alla mia banca che cosa ne pensavano.
Per cui andò a finire che non soltanto Berta aveva dovuto spostare il suo giorno di riposo al martedì e mettere a disposizione la cucina e il bar. Ma anche finanziare gran parte degli acquisti necessari.
„In cambio lavo i piatti", le avevo detto quando mi aveva messo in mano la banconota da centomila.
„Sì", aveva detto.
„E i soldi te li mando dal viaggio. Non appena avrò incassato il compenso di un trasporto."
„Sì sì."
Non so perché, ma mi ero sentito mancare. „Non ti va bene, Berta?"
„Certo, certo. Vai ora", aveva detto spingendomi fuori dalla porta, aveva preso una scopa e si era messa a spazzare lentamente e accuratamente i tre scalini davanti al bar.
Mi ero fermato un paio di passi più avanti. A metà strada dal camion.
„Se ti dico che va bene", aveva detto Berta dopo un po’. „Vai. Che poi devi anche cucinare, se vuoi finire per tempo. In modo che tu possa partire per tempo."
Tre ore dopo avevo comperato due cartoni pieni di roba, bevuto tre bianchi, dato a Berta un bacio sulla fronte e mi ero messo ai fornelli.

In realtà era stata tutta colpa di Rico.
A Montegaldella, un’area di servizio autostradale a nord di Mantova, avevo incontrato un vecchio conoscente. Ci eravamo concessi un caffè extra e avevamo iniziato a chiacchierare. Di tutto quello che era successo dall’ultima volta che ci eravamo visti. E di quello che non era successo. E di quello che sarebbe potuto succedere.
A me non dispiaceva, dalla mia tabella di marcia risultava chiaramente che già da molto avrei dovuto fare una pausa. Puramente per legge. Ma da queste pause il capo non ne ricava niente, l’autista non troppo e al resto del mondo è indifferente.
Freddy, che quando non era in servizio si chiamava Rico, mi raccontò della moglie e dei bambini, poi della sua seconda donna e degli altri suoi figli, dei suoi due mastini e del nuovo camion che si era comperato. E di cui era almeno altrettanto entusiasta che dei bambini. Cosa che mi fece diventare un po’ pensieroso. In effetti, avevo visto quel catorcio quando lo aveva parcheggiato. Era un vecchissimo Fiat, da sette tonnellate e mezzo, con tre strati di vernice, quattro strati di ruggine.
Ma Freddy amava il suo camion. E Rico amava le sue donne e i suoi bambini. E i cavalli. Che al momento stava trasportando. Tagliati in metà e quarti.
„Bona roba", disse. Aveva premuto l’indice contro il pollice, li aveva messi di sbieco, fatti passare da sinistra a destra sulla bocca inspirando l’aria e producendo un fischio.
Un quarto d’ora più tardi e dopo che eravamo riusciti a farci strada tra i pezzi di carne, tirò fuori un coltello indicando con esso uno dei pezzi e disse: "Puledro."

Così andò a finire che io avevo il puledro e Berta scuoteva la testa.
„No", disse, quando seppe che cosa sarebbe stato portato in tavola per cena.
„Non lo mangio", disse Berta. „Nemmeno se me lo fai ingoiare a pezzettini. Io non lo mangio, il puledro. Non finché vivo."
„Prima devo comunque cuocerlo", dissi.
"Tschenett...", disse Berta.
La faccenda diventava seria, se mi rivolgeva la parola in modo così ufficiale.
„Tschenett", disse Berta, „perché lo fai?"
„Cosa?" dissi sperando che avesse pietà e contando sul fatto di fare finta di non capire.
„La cena", disse Berta senza pietà. „Vuoi partire di nuovo? Non ce la fai più a restare?"
Le domande di Berta erano arrivate troppo presto per me. Davvero troppo presto. Non lo sapevo ancora neanch’io. A momenti. A momenti invece sì.
Berta si girò immediatamente. E si allontanò.
„Le galline", disse. E mi lasciò lì così.
Mi misi al lavoro con le verdure. Dovevo pulire le carote, le zucchine e gli spinaci. Ci volle del tempo. Ma Totò staccava comunque solo alle sette, e poi avevo bisogno di tempo per pensare.

All’area di servizio Rico mi aveva dato le bistecche di puledro. C’eravamo abbracciati brevemente e con forza un’altra volta e poi avevamo continuato il viaggio, ognuno nella propria direzione.
Per me voleva dire andare in direzione Kiefersfelden con un carico di Chianti a buon mercato. Là avevo consegnato il rimorchio alle ferrovie tedesche e ero ritornato al Brennero. Sempre con il puledro sul sedile accanto al mio.
Quando poi mi ero trovato davanti alla porta del mio appartamento nella casa Waldfrieden a Maria di Trens e avevo guardato il caos che si estendeva dietro di essa, quando poi era arrivato anche il Colonnello Amorino Paganotto, che era conduttore di cani antihascisc della Guardia di Finanza nonché mio vicino, nel senso che abitava al piano sotto il mio, questo colonnello, nel cui appartamento un paio di mesi prima avevo dovuto subire un duro interrogatorio da parte di uno scoppiato sbirro della squadra speciale mandato da Bolzano, dopo che mi avevano prelevato nel bar di Candalostia dove mi stavo accingendo a bere una tequila importata con una rossa del profondo nord, quando dunque era spuntato dietro di me questo colonnello dicendo qualcosa a proposito di riscaldamento e conteggio dei consumi per il riscaldamento, non ce l’avevo più fatta.
A quel punto il mio amico Totò poteva abitare dieci volte nel piano sopra il mio e cercare di domare gli spiriti dei tutori dell’ordine che aleggiavano nella casa.
Non ce l’avevo più fatta. Senza una parola avevo chiuso la porta in faccia al colonnello, mi ero poi appoggiato ad essa lasciandomi scivolare lentamente a terra. Ero rimasto seduto lì con il puledro in mano e per molto tempo non avevo fatto nulla. Dovevo andarmene. Per lo meno traslocare. Se questo poteva bastare.
(…)




Capitolo XIV

(…)
Con il tempo avevamo avuto fortuna. Il cielo era coperto da una sottile, grigia coltre di nubi. Ma ancora non sembrava dovesse nevicare.
Il viottolo ora scompariva di nuovo nel bosco e contemporaneamente si perdevano i rumori del cantiere della galleria che ci avevano accompagnati fin qui.
Mi concentrai sulla marcia. E dimenticai il resto. Un piede davanti all’altro. Un passo dopo l’altro. Lentamente le scarpe del muratore sembravano diventare più grandi. Inspirare, passo, passo, espirare. Ad un certo punto riuscii a pestare esattamente nelle orme del vecchio. Passo per passo.
Kalmsteiner prese un irto sentiero che saliva alla sinistra del viottolo. Iniziai di nuovo a respirare affannosamente.
Doveva essere un sentiero di cacciatori. O di contrabbandieri. Terribilmente scosceso e stretto. A tratti i rami impedivano il passaggio. Kalmsteiner sgattaiolava tra la vegetazione selvatica come se non avesse mai fatto altro. Avevo difficoltà a stargli alle calcagna.
Da una piccola radura si poteva vedere la valle. In lontananza c’era il paese. Sopra di esso il viadotto dell’autostrada. Fin qui si potevano ancora sentire i TIR.
„Non restare fermo lì in mezzo" disse Kalmsteiner. Si era girato. „Da ogni luogo che tu puoi vedere, puoi anche essere visto, non dimenticarlo. E non è che nessuno non stia attento."
Aveva ragione. In effetti, non eravamo qui per divertimento. Anche se come pretesto potevamo sempre dire che stavamo passeggiando. Non importava quanto fosse ridicola come scusa a fine marzo. Ma preferivo evitare un controllo delle carte di identità.
Kalmsteiner si era seduto su un ceppo d’albero sotto un cespuglio, nella boscaglia, e stava slacciando il suo zaino.
„Siediti qui" disse.
Mi accucciai vicino a lui.
„Visto che ci siamo fermati, possiamo anche mangiare qualcosa. Più tardi non avremo più tempo," disse e mi diede un pezzo di pane duro e uno di formaggio.
„Dieci minuti più in alto saremo fuori dal bosco" disse. „Poi viene il tratto in cui dobbiamo sbrigarci il più possibile. La via dei russi."
„Via dei russi?" dissi.
„Si chiama così, è stata costruita da prigionieri di guerra" disse Kalmsteiner. „In realtà è abbastanza nascosta. Ci sono soltanto un paio di punti da cui può essere vista dalla strada del Duce."
„Strada del Duce…"
„L’ha fatta costruire Mussolini negli anni Venti, su fino in cima al Kühberg. E poi a destra fino all’altezza del passo del Brennero. Qui davanti era troppo ripido per costruire una strada." Kalmsteiner si tagliò un altro pezzo di formaggio. „I finanzieri salgono a fare il giro di pattuglia fino a duemiladuecento metri con le jeep. Stanno seduti e si guardano intorno con i cannocchiali. Stupidi non sono, bisogna riconoscerlo. E su, sulla cresta, dove passa il confine, ci sono un paio di loro colleghi in pattuglia. Se quelli della jeep li guidano correttamente via radio, in cima non devono fare altro che aspettare tranquillamente che uno di noi arrivi tutto sudato."
Kalmsteiner tirò fuori dallo zaino una bottiglia di vino.
„Tieni", disse e me la porse.
Feci un sorso.
„E se ci dovessero vedere?" dissi.
„Non ci vedranno", disse il vecchio, „non ci vedranno. Per questo ci sono qui io. Lascia fare a me, ragazzo. Fai semplicemente quello che ti dico. Senza fare tante domande."
Annuii soltanto e ruminai il pane duro.
„Bene", disse il vecchio, allacciò lo zaino e guardò sull’orologio da taschino, „E’ ora di andare."
Ingoiai l’ultimo boccone e mi alzai lentamente in piedi.
„Le scarpe?" disse il vecchio.
„Possono andare. Va meglio ora."
„Allora stai attento. Non appena siamo fuori dal bosco, devi camminare dietro di me alla distanza di due passi. Esattamente due passi. E fai tutto quello che faccio io. Non parli. E ti sbrighi. Finché non siamo dall’altra parte. Finché non te lo dico io. Capito?"
Annuii di nuovo.
Kalmsteiner si mise lo zaino in spalla e iniziò a camminare. Con un passo lento e regolare.
Io dietro. Le scarpe stringevano di nuovo.
Camminare, Tschenett, e respirare, pensai. Tra due ore è tutto passato. Fidati del vecchio.

Quando ebbi lentamente ripreso il ritmo il bosco si diradò. C’erano soltanto alcuni alberi isolati.
Kalmsteiner si era fermato e perlustrava con il binocolo i pendii alla nostra destra. „Per i welsche, gli italiani, stamattina è ancora troppo freddo e troppo presto", disse. „Andiamo."
E poi partì. Aveva accelerato almeno di una marcia, il vecchio. Facevo fatica a seguirlo. Due passi, Tschenett, due passi dietro di lui. E senza farsi venire il fiatone.
Salimmo per un sentiero ripido, tra rocce e cespugli. Il vecchio procedeva ostinatamente con lo stesso ritmo sostenuto e aveva anche il tempo di guardarsi attorno. Io, invece, avevo il mio bel daffare a non restare indietro.
Poi il sentiero divenne ancora più ripido, nelle crepe tra le rocce c’era neve. Sprofondai fino alle ginocchia.
„Avanti" disse soltanto il vecchio.
La faceva facile. Era pelle e ossa e pesava sicuramente dieci chili meno di me.
Attraversammo in diagonale verso l’alto un campo di pini mughi. Ora avevo per lo meno qualcosa a cui aggrapparmi quando scivolavo sulla neve.
Vicino alla Groenlandia, quando facevo il marinaio sul peschereccio avevamo delle funi metalliche tenendoci alle quali ci tiravamo in avanti quando il ponte era ghiacciato. Più o meno così mi sembrava di fare ora.
All’improvviso Kalmsteiner si inginocchiò, si girò verso di me e mi fece un segnale. Capii e mi strinsi il più vicino possibile ad una roccia. Il vecchio prese il binocolo, perlustrò i paraggi e mi fece poi un altro segnale. Strisciai verso l’alto da lui.
„Fuori sull’angolo c’è una jeep", disse. „Ma girata nell’altro senso. Non credo che ci abbiano visti."
„E allora?" dissi.
„Aspettiamo. Aspettiamo."
„Per quanto?"
Il vecchio mi guardò, si aggiustò il cappello e sorrise.
„Fortuna non se ne deve avere se si vuol passare la montagna" disse poi. „Fortuna no, ma pazienza sì."
Avevo capito la lezione. Allora pazienza.
Almeno la sosta forzata mi dava la possibilità di riprendere fiato.
„Quanto manca ancora?" dissi.
Il vecchio aveva di nuovo portato agli occhi il binocolo.
„Ancora su per la Schatzgruben", disse, „e poi verso il passo. Un’ora, alla tua andatura. E se non c’è più neve di qui."
Allontanò di nuovo il binocolo.
„Allora?" dissi.
„La jeep è ancora lì. Stanno dentro seduti, quei pigroni. Non può durare ancora a lungo. Presto si annoieranno e andranno via. Finché si allontanano scendendo dalla montagna a noi sta bene."
Ancora un’ora. E poi un’altra volta lo stesso tragitto in giù verso l’Austria.
Lentamente, ma inesorabilmente, il gelo delle rocce e della neve si insinuava sotto i miei vestiti. Mi picchiai sulle gambe e sulle braccia. Kalmsteiner mi guardò e sorrise.
„Non era niente male il cavallo italiano che hai cucinato", disse poi.
Lo guardai stupito. Era l’ultima cosa a cui avrei pensato ora.
L’attesa non sembrava disturbare Kalmsteiner. A tratti sbirciava oltre la roccia per controllare la situazione, borbottava qualcosa, si aggiustava il cappello e per il resto del tempo guardava per aria.
„Domani", disse, „domani già non si sarebbe potuto più fare. Domani nevicherà."
Seguii il suo sguardo, ma non riuscii a vedere niente di particolare.
„Alla tua età ancora non si sente nelle ossa. Per cui è più difficile prevedere che tempo farà."
Mi aveva osservato. E ora mi stava ancora guardando.
„Non che m’importi", disse poi, dopo un po’ di tempo, „non m’importa. Però mi meraviglia."
„Cosa?"
Non rispose subito.
„Perché vuoi passare dalle montagne."
Risi brevemente. Era vero. Questo vecchio contrabbandiere, che in realtà era in pensione da molto tempo, mi stava conducendo oltre la montagna. E non sapeva neanche perché non volevo passare per la via legale.
„Kalmsteiner", dissi, „non prendertela a male. Mi sono semplicemente dimenticato di dirtelo. Non ho pensato che tu non lo sapessi."
„Fa lo stesso", disse.
„In realtà è semplicissimo", dissi. „Ho legato un poliziotto con le sue manette ad un camion."
„Einen Welschen, un italiano?"
„Si. Un italiano."
„Mi piaci sempre di più, Tschenett", disse Kalmsteiner.
„Al poliziotto non sarà piaciuto."
„Immagino," disse Kalmsteiner. „Avevi ragione. E’ meglio che passi dalla montagna." Prese di nuovo il binocolo. „Complimenti", disse. E poi: „Sono andati via. Andiamo."
I primi passi li feci inciampando in avanti. Non sentivo più i piedi. Ma Kalmsteiner procedeva ad una tale andatura che non avevo il tempo di lamentarmi. Nel frattempo il sentiero diventava sempre più scosceso. Era ghiacciato e coperto di neve. Avevo il mio bel daffare per non andare un passo in avanti e due indietro. Stavamo salendo su per uno stretto crepaccio. Se scivoli qui, Tschenett, in quattro secondi ti ritrovi giù a valle, pensai.
„Attenzione", disse Kalmsteiner, „Attenzione. Guarda attentamente dove metti i piedi. Segui me."
Se qualcuno il giorno del puledro mi avesse detto che il Kalmsteiner ed io ci saremmo rivisti in una simile circostanza, lo avrei preso per completamente rimbecillito.
(...)




Capitolo XXII


Herzsprung, che significava crepacuore, Herzsprung era un paese di 250 anime.
„Dirigiti a Herzsprung“, dal cellulare la padroncina mi aveva ordinato di cambiare destinazione. „Prendi la statale 24, in direzione Rostock, si trova poco prima di Wittstock.“
Mi ero rifiutato. „Dai nostri accordi la destinazione doveva essere Berlino“, dissi, „e io vado a Berlino.“
Due minuti più tardi avevo al telefono il capo. O per meglio dire: era il capo ad avere me al telefono.
„Tschenett, o come diavolo si chiama“, aveva detto, „La destinazione Berlino è soppressa. Si diriga a Herzsprung.“
„Ho un appuntamento a Berlino, capo.“ Era vero come una promessa elettorale. Ma non avevo semplicemente voglia di cambiare meta.
„Stia attento“, aveva detto il capo, “niente scherzi. Abbiamo dovuto cambiare programma, e anche Lei è tenuto a cambiare programma. Se su questo vi è anche il minimo dubbio, Lei è licenziato. Subito. Scenda al prossimo parcheggio. Ce ne sono a sufficienza di quelli come Lei che possono proseguire il viaggio. Per tre marchi e cinquanta di sicuro.“
Tre marchi e cinquanta erano un argomento a cui non sapevo resistere. Mi facevano perfino dimenticare il tono con cui mi aveva rivolto la parola.
„Herzsprung“, dissi, „va bene. Suono un po’ macabro, ma comunque. Sembra avere un significato.“
„Se ne sbatta del nome“, disse il capo, „conduca là il TIR e basta. Le successive istruzioni le riceverà sul posto.“
„Agli ordini, sir“, dissi.
Dunque Herzsprung. Il nome rispecchiava il mio stato d’animo. Ad ogni modo anche lì avrei trovato un sorso o due.
Diligente come un idiota ero uscito dall’autostrada al momento giusto. Sullo schermo della padroncina avrebbe lampeggiato un quadrato. E lei avrebbe annuito. Bravo, Tschenett, bravo. Bravo e ubbidiente per tre marchi e cinquanta.
Iniziavo ad odiare quell’aggeggio che inviava il segnale al satellite. Apparecchio di merda. Era un cordone ombelicale. Un guinzaglio.
Poco prima di arrivare a Herzsprung suonò il telefono.
„Entri dritto in paese, fino all’incrocio. Non può sbagliare. Ne ho solo uno sullo schermo. A sinistra dietro l’incrocio deve esserci una casa. Su cui c’è scritto Herzsprung. Locale da ballo. Parcheggi lì. Passerà uno dei nostri uomini.“
 „Perché non lei, padroncina?“ dissi. „Locale da ballo suona bene. Potremmo divertirci un mondo.“
„Non ballo.“
„E allora perché mi mandate qui?“
„Per lavoro“, disse la padroncina, poi si sentì tututu, aveva riagganciato.

Herzsprung, era fatto di due strade che si incrociavano, e una terza che partiva dall’incrocio. Herzsprung, era fatto anche dei campi e boschi, che si estendevano dove finivano gli orti delle quattro case. E Herzsprung era fatto di un parcheggio nascosto dietro ai cespugli, di fronte al locale da ballo chiamato Herzsprung. Di più non c’era. E il parcheggio era vuoto, ad eccezione di due furgoni.
Scesi dalla motrice Vovol, chiusi a chiave e feci un giro per il paese. Niente. Morto. Non un essere umano per strada. Nonostante mancasse ancora mezz’ora al calare dell’oscurità.
Poi mi fermai davanti al locale da ballo. Forse servivano da bere anche se si voleva solo stare seduti. E forse finalmente sarebbe comparso anche l’incaricato della ditta Zantrans.
Il locale da ballo Herzsprung non doveva avere ancora visto giorni migliori. Perché così fosse i bei tempi erano passati da troppo tempo. E i nuovi tempi erano troppo nuovi. Non avevano portato molto di più del cuore di neon rosso attraversato da una crepa e la scritta sulla facciata della casa. Di sicuro non dei clienti. Per lo meno non a quest’ora.
Il locale era deserto. La musica suonava, tre luci da discoteca lampeggiavano davanti a sé, una sfera a specchi girava. Non si muoveva altro.
Mi sedetti al banco e aspettai. Aspettavo qualcuno che potesse portarmi qualcosa da bere e qualcuno della ditta Zantrans. Quando, dopo cinque minuti, non si era ancora fatto vivo nessuno, chiamai il cameriere, tre minuti dopo feci cadere a terra un portacenere. Non comparve nessuno. Lentamente mi stavo scocciando.
In segreto continuavo ancora a sperare di potermene andare in una città quella sera. La più vicina degna di tale nome era Berlino. Con la motrice era comoda da raggiungere. Distava un’oretta scarsa.
Nell’angolo più recondito del locale si aprì una porta. Una donna giovane e magra si mise dietro al bancone e mi guardò senza dire una parola.
„Allora“, dissi, „c’è qualcosa da bere?“
„E cosa?“
„Birra.“
„Radeberger.“
„Va bene“, dissi, „una Radeberger grande.“
Spillò la birra tutta in una volta, nel modo più maldestro possibile, e scomparve di nuovo.
Almeno mi ero avvicinato di un passo alla felicità. Anche se soltanto di uno piccolo. Non bere troppo, Tschenett, pensai, se ti fanno ripartire ancora oggi è meglio che tu non abbia bevuto troppo. E dalla Zantrans ci si poteva aspettare di tutto. „La Zantrans può andare a fan culo“, dissi.
„Cerca di non farti sentire dal capo“, disse una voce alle mie spalle. Mi girai. E non potei credere ai miei occhi.
Tschenett, vedi anche i fantasmi adesso, pensai. E tornai ad occuparmi della mia Radeberger. Per un paio di secondi ci riuscii.
„Cosa c’è, non riconosci più un vecchio compagno?“
Effettivamente c’era una certa somiglianza. E anche la voce me lo ricordava.
„Ralle?“ dissi.
„Giusto, Tschenett, vecchia spugna.“
Era veramente Ralle. E poi ci abbracciammo. C’eravamo conosciuti a San Silvestro del millenovecentottantanove, poco dopo il crollo del muro e da allora non c’eravamo più visti. Ralle, chiamato Ralf fino al suo undicesimo anno di età, e da allora in poi sempre solo Ralle.
„Cosa ci fai in questo buco?“ dissi.
„Quello che fai tu. Ci lavoro.“
„Come se tu avessi mai lavorato, vecchio mio.“
Ralle scivolò sullo sgabello affianco a me.
 „Non lo faccio nemmeno ora“, disse. „Vengo solo pagato come se lavorassi, capisci?“
„Non capisco.“
Se aveva scoperto un nuovo trucco, doveva raccontarmi di cosa si trattava.
„Alla prima occasione ti spiego“, disse Ralle. „Prima offro un giro.“
„Generoso da parte tua“, dissi.
„Generoso per niente. Il locale è mio.“
„Da quel che sembra non ti farà diventare ricco.“
„Più tardi“, disse Ralle e picchiò con un grosso mazzo di chiavi sul bancone, „più tardi migliora un po’. E’ jottweedee. Ma finché si riescono a fare un paio di marchi a tempo perso può andare. Niente paura, vecchio mio, ancora non sono ridotto alla fame.“
In effetti conoscendo Ralle mi sarebbe stato difficile immaginarlo.
„Non arriva di nuovo nessuno“, disse.
Solo ora capii che aveva sbattuto le chiavi per chiamare la cameriera. Perché poi avrebbe dovuto riuscirgli meglio che a me.
„Va bene“, disse, „allora il capo si versa da bere da solo. E quindi il bicchiere sarà meno pieno.“
„Ma non se si tratta del mio“, dissi.
„Vediamo“, disse Ralle e scomparve dietro al bancone.
Anche lui si avviava come me a grandi passi verso i quaranta e aveva parecchie storie alle spalle. Nelle primissime ore del mattino del millenovecentonovanta c’eravamo raccontati l’un l’altro la storia della nostra vita. Dopo che c’eravamo incontrati per caso, due persone completamente estranee, che erano annoiate dai divertiti festeggiamenti che li circondavano, da quella allegria di cui i teutonici sono preda puntualmente e su prescrizione una o due volte all’anno e che passa altrettanto velocemente come è arrivata.
Ralle ed io appartenevamo di più alla categoria di persone che preferiscono festeggiare tutto l’anno, senza nessun motivo e in modo del tutto incontrollato. Chi appartiene a questa specie riconosce subito il suo simile, anche in un locale stracolmo di gente. Così Ralle ed io ci eravamo incontrati. Avevamo girovagato per la città, finché in un locale non avevamo trovato comodo e meno capodannesco. C’eravamo stretti dietro al tavolo e eravamo rimasti seduti.

Ralle era cresciuto ad Oranienburg, alle porte di Berlino, come diceva con il petto rigonfio di orgoglio, finché non lo colpii allo stomaco e tutta l’aria ne uscì.
Non aveva avuto fortuna a scuola, ma in compenso ne aveva avuta nella Nationale Volksarmee. Aveva fatto un addestramento speciale come sommozzatore della marina, per tre anni, finché la cosa non era diventata troppo stupida per lui e i suoi capelli non erano diventati un po’ troppo lunghi. Poi si era tenuto a galla con un lavoro qualsiasi, non sempre del tutto legale, non sempre del tutto socialista. Non era un cittadino esemplare della DDR. Ma neanche uno di cui sarebbero stati soddisfatti nell’ovest. Tutto era stato tranquillo per i successivi vent’anni.
Fino al 7 ottobre 1976. Nei pressi della torre televisiva c’era stato un concerto rock, Ralle c’era andato, come migliaia di altri, per ascoltare un po’ di musica, non se ne aveva spesso l’occasione al Telespargel, e si erano divertiti, avevano bevuto un paio di birre e avevano ballato e all’improvviso aveva ceduto il pavimento. Era crollata una fossa di ventilazione, tutti si erano fatti prendere dal panico e Ralle aveva cercato di mettersi al sicuro. Era scappato, in direzione Alexanderplatz.
I Vopos avevano chiuso il tunnel sotto l’Alexanderplatz, perché avevano pensato che stesse succedendo chissà che cosa, una rivolta popolare o qualcosa del genere, avevano controllato ogni singola persona, piedi attaccati al cordolo, braccia incrociate sulla nuca, gomiti alla parete, e poi un calcio dall’interno sui piedi, facendoci rimanere lì così per l’intera notte, aveva raccontato Ralle, conosco il sistema, avevo detto io e mi ero ricordato di Vienna e dell’unità speciale che in Austria chiamavano Cobra, e poi via in galera, rinchiuso per tre giorni, con interrogatori e tutti gli annessi e connessi, contestandomi tutto, tutto quello che potevo aver fatto, cose tipo aver attraversato con il rosso sulle pedonali il giorno tal dei tali, e questo con il mio passato da militare, e io sempre ostinato, non avevo fatto niente a nessuno io, proprio niente, aveva raccontato Ralle, e era poi stato condannato a due anni e mezzo, per rowdytum e alcolismo o qualcosa del genere e poi ancora a altri tre anni di galera per rissa, uno voleva pestarmi mentre ero al cesso, non potevo lasciarlo fare, e allora me ne diedero tre in più, faceva anche lo stesso.
E quando poi era uscito di galera, non era più riuscito a rimettersi in sesto, non me ne fregava neanche più niente di tutta la faccenda, allora in estate, travestito da pittore paesaggista, era andato a Ahrenshoop, zona balneare della Stasi sul Baltico, sai, e con due compagni, con il cavalletto e uno zaino enorme sulle spalle, si erano addentrati nella zona vietata, e una notte erano partiti sul gommone, senza un solo pezzo di metallo, per via dei radar e simili, non ero mica stato in marina per niente, scappando via mare, confidando nei muscoli delle loro braccia e nei calcoli delle correnti di Ralle, Marina, non dico altro, ed erano sbarcati in Danimarca dopo due notti e un giorno felici e affamati.
E lì tutto era ricominciato da capo, Ralle non aveva ancora messo la testa a posto, si era aggirato per Amburgo e, cosa che non avrei mai creduto, gli era venuta nostalgia, dei broilern, delle Karos, di tutto, e quando poi all’improvviso il muro non c’era più, sono tornato. Subito. Non che la cosa mi interessasse politicamente, no, ma voleva tornare a Berlino.
E così la notte di San Silvestro millonovecentoottantanove ci eravamo incontrati. Per puro caso.
E ora di nuovo.
„Due Radeberger, tre centimetri sotto la linea di riempimento“, disse Ralle e mise i bicchieri davanti a noi.
„Truffatore“, dissi.
„Zitto, vecchio mio“, disse Ralle e tornò dalla mia parte del bancone.
„Non dico niente comunque.“
Ralle mise il braccio sulla mia spalla sinistra.
„E tu non ne hai ancora abbastanza?“ disse.
„Di che cosa?“
„Di fare camionista.“
„Non so fare altro“, dissi.
„Questa non è una buona ragione.“
„Forse no.“
„Vedi. Già inizia a ragionare l’omino che hai qui dentro.“
Mi aveva colpito sulla nuca.
Quando Ralle si comportava così doveva avere un asso nella manica. Niente era gratuito con Ralle.
„Dì quello che hai da dire, Ralle.“
„Non ancora“, disse e si alzò.
Nel frattempo erano arrivati nel locale un paio di clienti. E lo stesso continuava a sembrare vuoto.
„Spostiamoci in un luogo più appartato“, disse Ralle. „Qui inizia lentamente a riempirsi.“
„Per sei o sette persone?“ dissi.
Andando via Ralle ordinò alla cameriera due cene.
„Roba per il capo“, disse, „e in fretta.“
Lei annuì soltanto e scomparve nella porta sul retro.

„Hai fame, o no?“ disse Ralle, dopo che ci fummo accomodati ad un tavolo nell’angolo più nascosto del locale da ballo.
„Certo“ dissi e poi, dopo una pausa,: “Allora…“
Ralle mi interruppe.
„L’abitudine di mangiare ogni giorno sempre alla stessa ora, puntuale al minuto, mi è rimasta dalla galera. Vengo letteralmente assalito dalla fame. Puntualmente alla stessa ora. Ci ho messo due anni a far slittare la cena dalle diciotto alle ventuno. Non ci si libera tanto velocemente della galera“.
Ralle si guardò intorno.
„Non me ne intendo molto“, disse poi, „e da noi la gastronomia non è mai stata una gran cosa. Tu vieni pur sempre da una zona turistica. Cosa pensi che si possa guadagnare con una bettola del genere?“
Diedi un’occhiata alla sala. Se già sul lato anteriore il locale aveva dato un’impressione triste, qui dietro era finita del tutto. Era grigio, scadente, trasandato. Nonostante non potesse avere più di tre anni. Chi si sedeva qui dentro di sua volontà doveva essere di Herzsprung, non avere amici, non avere la patente e non avere sangue nelle vene, altrimenti non era del tutto normale. Non era un locale in cui si entrava una seconda volta. Era mortale. Triste. Noioso.
„Cosa si può guadagnare con un posto come questo?“ dissi.
„Un bel niente. Cerca di liberartene, prima che tutti si siano accorti che non vale un accidente.“
„Primo: hai ragione. Secondo: non hai ragione“, disse Ralle. „Non c’è niente da guadagnare con il locale. Non un marco stanco. Giusto. Ma non lo venderò.“
„E perché no?“
„Arriva da mangiare“, disse Ralle.
E mi lasciò sulle spine per la successiva mezz’ora. Non rispose a nessuna domanda, parlo di Dio, del mondo e del tempo, di tutto, ma non si avvicinò al nostro tema. Per due volte suonò il suo cellulare, disse sì e no e non molto di più e io sapevo perché: voleva torturarmi. Una mossa tatticamente intelligente. Dunque gli avevano insegnato qualcosa in marina, al vecchio sommozzatore da battaglia.
Poi svuotò il suo piatto, anch’io il mio, fece portare una seconda bottiglia di Bardolino e all’improvviso, come per incanto, comparvero alcuni minorenni, dieci minuti più tardi perfino qualcosa di simile ad un disc-jockey. Quando aggrottai la fronte per via della musica che attaccò, Ralle alzò brevemente il braccio, e mezzo minuto più tardi l’addetto ai dischi mise sul piatto della musica che si avvicinava di più all’età media del nostro tavolo. Ai minorenni Ralle offrì un giro di Cuba libre.
„Un po’ troppe cerimonie per un colloquio di lavoro“, dissi, „ed è questo che deve diventare, o sbaglio?“
„Dipende da come lo si prende“, disse Ralle. „Si può anche considerare una chiacchierata tra amici. Decidi tu.“
„Deciderò più tardi“, dissi, „prima fammi ascoltare.“
Ralle prese il cellulare e lo spense.
„Al momento fai dei trasporti per la Zantrans,“ disse. „Sei soddisfatto?“
„Pagano puntualmente. In contanti. E non male.“
„Vuoi guadagnare il doppio? Almeno. Il triplo?“
„Di che cosa stiamo parlando?“
„Cinquemila marchi, netti. Tanto per iniziare.“
Cinquemila. Non male. Erano parecchi soldi.
„Vuoi che mi faccia licenziare?“ dissi.
„No“, disse Ralle, „assumere.“
Riflettei brevemente.
„Zantrans?“
„Giusto. Continui a lavorare per Zantrans. Ma appunto con me.“
„Per cinquemila?“ dissi. „Cosa c’è di marcio?“
„Per te, non più di quanto non ci sia già finora“, disse Ralle.
La faccenda si faceva interessante. Per un istante mi passò per la mente la padroncina, con passi lunghi e con la rincorsa.
„E cosa c’era di marcio?“
„Tschenett“, disse Ralle, „non mi dire che non ti sei ancora accorto di nulla. Cazzo, così rimbambito non puoi essere.“
„Ero proprio intento a lavorarci su“, dissi. „Le soste di riposo, le telefonate, i limiti di velocità, il satellite. Sembra che quelli si comportino come te, che non vogliano fare affari.“
Ralle mi guardò in attesa. Lo guardai a mia volta.
„Avanti“, disse Ralle.
„Perché uno non vuole fare affari?“ dissi.
Ralle aspettava.
Mi versai un altro bicchiere. Non c’erano molte alternative. Per essere più precisi: ce n’erano solo due. Avrei dovuto arrivarci prima. Molto prima. Perdi colpi, Tschenett, pensai. Una volta o l’altra ti costerà la testa. Più presto di quanto non pensi, se non stai attento.
„Perché?“ disse Ralle.
„Perché uno non vuol fare affari?“ dissi. „O per motivi religiosi, che equivale a dire che è pazzo. Oppure…“
„Oppure…“ Ralle voleva concludere la faccenda.
„Oppure perché parallelamente sta facendo degli affari molto più redditizi di cui nessuno deve sapere niente.“
„Non male“, disse Ralle, „e di che cosa stiamo parlando?“
„Automobili?“
Ralle scosse il capo. „No.“
„Droga...“
„Non del tutto.“
„Puttane?“
„Pensaci con calma“, disse Ralle, „e non parlare sempre di donne. Cosa può starci in un TIR?“
„Molte cose.“
„Ed è quadrato, pratico, buono?“
Ne avevo abbastanza.
„Lascia perdere il giochetto, Ralle“, dissi. „Sputa il rospo. Dimmi di che cosa stiamo parlando e dimmi che cosa vuoi da me.“
„O.k.“, disse Ralle. „Immaginati un container pieno di sigarette.“
Avevo capito al volo. Gorgonzola, il camion, il carico.
„Sulla via dalla fabbrica al fumatore incallito“, disse Ralle, „il container acquista un valore di circa due milioni di marchi. Dazi e tasse. Capito?“
Naturalmente. Il conto era semplice. E il guadagno maledettamente alto, nel caso uno fosse riuscito ad inserirsi tra fabbrica e acquirente.
„Zantrans?“ dissi.
Ralle annuì leggermente con il capo.
„Anche.“
„E la padroncina?“
Ralle sogghignò.
„Dimenticala.“
„E tu?“
„Io organizzo la distribuzione qui alle porte del mercato di smercio, sezione nord ovest della Germania. All’ingrosso. A chi si occupa del passaggio successivo. Di più non occorre che tu sappia.“
„E il mio TIR là fuori?“
„E’ già vuoto. Aperto con la seconda chiave.
„Truck-Stop?“
„E’ la stessa cosa.“
„Ma quelle erano macchine da scrivere spagnole.“
A Gorgonzola si trattava ancora di camicie, svizzere.
„Per la  dogana. Non per me“, disse Ralle e sorrise. „Con due milioni si possono fare molte cose. In cambio si può anche avere qualche timbro, non ti pare? E un paio di marchi in più possono sempre far comodo a chiunque. Anche a un impiegato della dogana.“
„E io non sapevo niente e ho trasportato la merce in giro per il paese.“
„Ammettilo“, disse Ralle, „non hai voluto saperlo. Sii contento di aver incontrato me. Ora per lo meno sai con che cosa hai a che fare.“
„Perché mi racconti tutto questo?“ dissi. „Voglio dire…“
„Lascia perdere. Il trasporto di oggi è andato storto. Il Truck-Stop non era pulito. Una retata, per caso, non aveva niente a che fare con noi. Ma ne sono stato informato lo stesso. Quindi sei stato dirottato direttamente qui. Era il rischio minore. Ho sentito il tuo nome. E ho pensato: maledizione, ma questo lo conosci. E poi ho bisogno di qualcuno che mi dia una mano. Sta diventando troppo. L’affare si espande, o come si dice in questi casi. Da solo non riesco più a stargli dietro.“
Respirai profondamente.
„Prenditi tempo“, disse Ralle. „Ci vuole un po’ prima che ci si sia abituati alla verità. D’altra parte sai benissimo che non è la prima volta che trasporti merce di contrabbando sul tuo TIR, o sbaglio? Quasi nessuno dei camion che girano per il paese è pulito. Il tutto non sarebbe più un affare. Solo che sono sempre gli altri a fare i soldi.“
Mi guardò per un attimo.
„Vecchio mio“, disse, „questa volta hai la possibilità, di guadagnarci anche tu un paio di marchi.“
„Davvero?“
„Sì, se vuoi.“
„Forse alla mia età non è neanche così male arrivare ad avere un po’ di soldi“, dissi, „Chissà quante cose ci si possono fare.“
„Wir sind die junge Garde – des Pro-le-ta-ri-aats“, cantò Ralle, senza che ci fosse alcun collegamento e senza battere ciglio.
Qualcosa da qualche parte nella mia testa si mise a lavorare. Conoscevo quella melodia.
„Zu Mantua in Ba-an-den – der treue Hofer war“, dissi poi. Avevo trovato appena in tempo i due angoli impolverati del mio cervello in cui erano state riposte le immagini ed i toni associati alla melodia.
Zu Mandua in Banden. Le marce degli Schützen. Avevo otto, dieci, tredici anni. Impavidi erano, impavidi marciavano. Per impedire l’arrivo dello straniero, per allettare gli stranieri. Gli stranieri erano i turisti che piombavano come cavallette su una zona che gli accoglieva sbavando a braccia aperte. Avevo sedici anni e gli Schützen fedelissimi del Tirolo, con i loro motti semifascisti, con il loro Andreas Hofer, un annacquatore di vino pronto all’estremo sacrificio, le loro apparizioni accompagnate da ritmi sordi e il loro capo così orgoglioso dei suoi stivali lucidati di fresco, mi stavano ormai soltanto sulle palle.
Wir sind die junge Garde. Le marce di massa del 10 maggio a Berlino est. Era l’85 se non l’84. Impavidi salutavano, con il pugno, la mano, il pugno, impavidi marciavano. Sulla melodia di Zu Mantua in Banden cantavano Wir sind die Junge Garde. Al ricordo degli Schützen mi venne da vomitare. Poi mi accorsi: tutta Berlino est era un assembramento di giovani donne della FDJ, l’organizzazione giovanile del partito, giovani donne con delle camicie azzurre. Il resto non mi importava quasi più, ero invecchiato. Gli anziani signori sulla tribuna, vicino alle loro anziane mogli, i motti offensivamente stupidi composti in serie in volumi commissionati a scrittori prezzolati. Pensai solo ai cazzi miei. E alle giovani donne con le camicie azzurre.
„Bando alle ciance“, disse Ralle e si alzò, „inizia a ragionare in termini commerciali. Torno subito.“
(…)




Capitolo XXV

(…)
Una volta soltanto gli sbirri mi fecero il fiato sul collo.
Per pura curiosità una volta, mentre stavo passando in macchina a Prenzlauer Berg davanti ai venditori vietnamiti, infilai la macchina nel parcheggio più vicino e tornai indietro a piedi. Passai davanti ad un vietnamita che faceva il palo all’angolo della strada. Un po’ più avanti davanti ad un secondo appoggiato all’entrata di una casa che occhieggiava oltre l’angolo. Sull’altro lato della strada c’era una donna. Andai avanti e contai. Almeno cinque persone proteggevano i due colleghi che stavano nei pressi di un ingresso con vicino a sé sacchetti di plastica pieni di sigarette delle più varie marche, a stecche.
Venivano chiamati venditori formica. Il nome aveva una sua ragione. Ogni giorno si sparpagliavano per i quartieri ad est della città, trascinavano per le strade i loro sacchetti, al mattino emergevano dal nulla e scomparivano altrettanto improvvisamente di sera. Dozzine, centinaia, giovani, vecchi, silenziosi e cortesi, una quantità pazzesca di persone per quel paio di sigarette, formiche appunto.
Quando fui a mezzo metro dai due che erano vicino all’ingresso, uno sussurrò: „Sigarette?“
Mi fermai.
„Quanto costa una stecca?“ dissi.
„Trenta“, disse il più alto dei due.
„Dammene una“, dissi.
Poi non se ne fece nulla. Da non si sa dove arrivò un fischio. I due presero in fretta i loro sacchetti e scomparvero altrettanto velocemente dietro al portone. Uno dei due mi aveva trascinato con sé.
„Polizia“, disse.
Il suo collega spiava all’esterno attraverso una fessura.
„Problemi?“ dissi.
„A volte“, disse quello più alto, „se non si sta ben attenti. O se sono in borghese.“
„Gli sbirri vengono anche in borghese?“
Annuì e sorrise.
„Ma spesso sempre gli stessi. Si conoscono. Picchiano.“
„Come, picchiano?“
„Picchiano. Sono arrabbiati. A volte. Perché il lavoro non porta a nulla. Se arrestano delle persone, poi ce ne sono subito delle altre.“
„Posso capirlo“, dissi e sorrisi anch’io.
Non era davvero una prospettiva edificante. E niente di gratificante per questi aspiranti rambo. Spazzare vietnamiti nelle strade di Berlino. E di continuo ne spuntavano di nuovi oppure i soliti. Chi poteva saperlo. Per noi che non ce ne intendiamo sembravano tutti simili l’uno all’altro.
Il più alto disse qualcosa in vietnamita al suo collega. Quello scosse il capo e continuò a guardare attraverso la fessura.
„Ancora momento“, disse il vietnamita.
Annuii soltanto. Avevo tutto il tempo che volevo.
„E cosa ci guadagnate?“ dissi. „Quanto?“
„Tre marchi alla stecca“, disse il vietnamita.
„Tutti insieme?“
„Sì.“
Allora dovevano lavorare molto sodo perché ciascuno ottenesse il suo paio di marchi. Soldi guadagnati duramente, quei tre marchi, a stare in piedi tutto il giorni in attesa.
Tschenett, pensai, così è. Tu fai la grana con poco, senza sporcarti le mani, vai un po’ in giro nei paraggi, telefoni tre volte al giorno. E i colleghi della vendita al dettaglio si rompono il culo per un tozzo di pane. Tschenett, Tschenett, come già detto, sembra veramente che tu stia pian piano diventando adulto e anche stronzo.
Dopo che il collega aveva fischiato il cessato allarme, per farmi sentire ancora peggio, diedi al vietnamita un deca in più per la stecca e lasciai perfino che mi ringraziasse.
„A posto così“, dissi, „sono per così dire soldi tuoi.“

Il giorno dopo Ralle mi aveva ordinato di tornare a Herzsprung, e io gli avevo parlato dei vietnamiti.
„Quelli?“ disse Ralle. „I viets sono contenti. Fanno anche bene ad esserlo. Diventi di nuovo sentimentale, Tschenett?“
„Mah sì, mah sì“, dissi.
„Stai attento“, disse Ralle, „sai perché non amo i sentimentali? Perché non sanno niente. Così è.“
Aveva fatto centro.
„Prendi i viets“, disse Ralle dopo aver preso fiato profondamente. „Sono stati portati qui dai loro paesi socialisti dalla fraterna DDR, perché le servivano un paio di molochi. Oltretutto il Vietnam aveva ancora dei debiti dalla guerra. Vedi, all’est si chiamavano lavoratori a contratto. E nell’ovest, mio caro, se non erro, immigrati. Ora dimmi, quale è il termine più meschino. Fin qui tutto bene. Poi è arrivato il novembre ottantanove e tutto quello che ne è conseguito e poco dopo i lavoratori a contratto vietnamiti erano disoccupati. Come anche un paio di altri. E quindi ci si voleva liberare di loro. E all’improvviso sono diventati mezzi illegali. Abitano da qualche parte fuori al limite della città in ostelli, ammassati uno sull’altro come galline in batteria e si girano i pollici, finché non verranno rispediti in Vietnam. Confrontato con il modo con cui si taglia corto con i lavoratori immigrati altrove, questo trattamento è quasi umano. Visti da questo punto di vista i tre marchi a stecca sono soldi guadagnati bene per i viets. E tu vuoi togliere loro anche questo.“
„Quando mai“, dissi. „Di più dovrebbero prendere, semmai.“
„E tu saresti soddisfatto con metà dei tuoi soldi? Questo non lo credi nemmeno tu. Il sistema“, disse Ralle, „devi capire il sistema.“
„L’ho già capito“, dissi, „ma che mi piaccia è un'altra cosa.“
„Allora cercati il divertimento altrove.“
E con questo per Ralle il discorso era chiuso. E in effetti anche per me.
(…)




Capitolo XXXVII

Ora tocca a te Tschenett, essere coraggioso. Se ce l’hai fatta fin qui, ce la farai anche per un altro metro e due scalini. Oltretutto quei due hanno urgente bisogno di qualcosa da mangiare e di un letto caldo.
Ero fermo nell’oscurità davanti alla casa, vicino a me la padroncina tremante, dietro di me i due vietnamiti infreddoliti che molto probabilmente si stavano chiedendo che problema c’era di nuovo. Alla vista delle finestre illuminate si erano sicuramente già sentiti a casa.
Il torrente di Fleres alle mie spalle sembrava diventare sempre più rumoroso. Così rumoroso che non vidi più nessuna possibilità di trovare le poche parole con cui intendevo esordire.
Muoviti, Tschenett. Che almeno quei due possano rifocillarsi. Questo non te lo negherà.

La porta si aprì. Più che una sagoma non potei vedere controluce. Ma era lei.
„Dai entra“, disse Berta. „Cosa fai stare questa gente fuori al freddo. Non hai ancora imparato come ci si comporta?“




Note

Pag 45        Andare a passeggio a fine marzo: Effettivamente vi furono tentativi di passare illegalmente la frontiera per i quali i pretesti furono ancora più assurdi.
„Nella notte tra domenica e lunedì (novembre 1963) su una strada isolata all’altitudine di circa 2000 metri presso il  passo Gala in valle Aurina, non lontano dalla frontiera austriaca furono trovati e arrestati da una pattuglia il 23enne Josef Oberreiter di Luttago e la 38enne Rosa Ebner di Molini di Tures. Josef Oberreiter, che era ricercato dalla polizia, e Rosa Ebner stavano viaggiando con una motocicletta e dichiararono al momento del loro arresto che erano in cerca di funghi. Questa spiegazione era però poco credibile visto che nella zona interessata era nevicato. Durante il tragitto verso Brunico la macchina della pattuglia slittò sulla neve e finì fuori strada. Quando il conducente si fermò per far ripartire la macchina, Josef Oberreiter sfruttò l’occasione favorevole e scappò. Nonostante le forze dell’ordine si fossero messe subito sulle sue tracce, non riuscirono a catturarlo. Trovarono soltanto una pistola che probabilmente Oberreiter portava con sé e che aveva gettato quando aveva visto la pattuglia. La 38enne Rosa Ebner è la sorella di quel Franz Ebner che si trovava nella passata estate del 1963 insieme con Josef Laner nella caserma dei Carabinieri di Campo Tures per essere interrogati  quando esplose del tritolo messo dai terroristi nel camino e che quasi distrusse l’intera caserma. Ebner e Laner furono feriti. Dopo un po’ di tempo furono rilasciati.“ (Dai quotidiani del novembre 1963). Cfr. anche il romanzo di Kurt Lanthaler „Il Carabiniere“ in uscita non prima del 2001.
Pag. 46    Groenlandia: Vedi anche i primi 4 capitoli del romanzo “Azzurro” dell’autore in uscita a settembre 1998 presso l’editore Haymon.
Pag. 48    Herzsprung: „Herzsprung, CAP 1931, collegio di Wittstock (Dossa), 320 abitanti. Proposte di itinerari per passeggiate: Herzsprung – Kattenstiegsee – Kattenstiegmühle (3km). Herzsprung – Königsberg – Königsberger See (4km). Herzsprung – Fretzdorfer Heide – Bauhof – Scharfenberg (104 km). Per eventuali richieste e informazioni rivolgersi a: Consiglio del Comune di Herzsprung, tel. 207.“ In: Der Grüne Ring. Erholungsgebiete in und um Berlin. Verlag Tribüne Berlin, 1975.
Pag. 50    Jottweedee (berlinese): Significa qualcosa come „In culo al mondo“, cioè „Janz weit draußen“(molto fuori).
Pag 51        Telespargel (berlinese): Il berlinese ha una predilezione per la gastronomia quando dà dei soprannomi alle opere architettoniche. Con Telespargel (asparago televisivo) si intende la torre televisiva, con Schwangere Auster (ostrica incinta) il palazzo dei congressi, con Hungerkralle (unghia della fame) il monumento sulla piazza del ponte aereo per ovviare appunto alla stessa, con Kohlroulade (involtino di cavolo) il Reichstag impacchettato da Christo. La piazza del ponte aereo si trova vicino all’aeroporto di Tempelhof sito nel centro della città, dove durante la blockade di Berlino atterravano gli aerei USA. Questo ponte aereo rifornì dei necessari viveri, medicinali, carburante ecc. la popolazione di Berlino ovest permettendone la sopravvivenza.
Pag. 51    Vopos: abbreviazione di Volkspolizei (polizia del popolo) che era una delle forze di polizia della DDR.
Pag. 52    Rowdytum: Abbiamo consultato una pubblicazione del „Ministero della Bundesrepublik per questione di interesse tedesco comune“ con il titolo „SBZ von A bis Z. Ein Taschen-und Naschlagebuch über die Sowjetische Besatzungszone Deutschlands“, Deutscher Bundes-Verlag, Bonn 1966. („ZOS dalla A alla Z. Un libro tascabile e di consultazione sulla Zona di Occupazione Sovietica in Germania" , Edizione Deutscher Bundes-Verlag, Bonn 1966): Rowdytum: gergo di partito per disordine causato da teppisti. Il concetto di teppista viene rifiutato. Le forme di apparizione ad esso collegate furono per molto tempo rigettate. Alla fine furono indicati come motivi per la scarsa attività degli adolescenti  nella vita pubblica e per il „purtroppo spesso osservato fenomeno del R“ il mancato buon esempio degli adulti e il fallimento della FDJ (Freie Deutsche Jugend – Libera Gioventù Tedesca). (DLZ del 19.1.1957). L’accusa di R. fu rivolta in particolare agli adolescenti che manifestavano in modo burrascoso il loro entusiasmo per la musica Beat. Numerosi processi per R. finirono con dure condanne.“
Pag. 52    Ahrenshoop: Quando l’autore nell’estate 1990 giunse ad Ahrenshoop, l’albergo per le ferie dei collaboratori del ministero per la sicurezza dello stato era diventato un hotel, in cui, cosa molto rara, si perdevano alcuni banchieri e assicuratori che erano gli unici ospiti. Il portiere di una volta era stato promosso a gestore. E’ l’unico gestore di un hotel contro cui l’autore ha giocato alla discesa di sci su un videogame della marca Robotron. Per la cronaca sportiva: dopo sette giorni il gestore aveva vinto 22 su 24 partite. L’accesso all’hotel era allora la più popolata zona di caccia del cinghiale conosciuta dall’autore. L’hotel era dotato di una biblioteca ben assortita, che era dedicata ad un famoso esploratore del socialismo.
Pag. 52    Breuler: Nella Germania dell’est pollo alla griglia.
Pag. 52    Karo: Marca di sigarette della DDR di una volta che sono sopravvissute fino ad ora; senza filtro, crepitanti, sincere, dure.
Pag. 53    Immaginati un container pieno di sigarette: nell’arco del 1994 nella BRD furono sequestrati 725 milioni di sigarette. Impiegati della Soko (Commissione speciale della Polizia)  „fumo blu“ stimano che al massimo viene scoperto tra il cinque e il dieci per cento delle sigarette di contrabbando. Dei 25 pfennig che una sigaretta costa alla vendita legale lo stato incassa 14 pfennig come tassa sul tabacco, 4 pfennig di I.V.A. e 3 pfennig di dogana. Facciamo qualche breve calcolo e arriviamo al seguente risultato: l’industria del contrabbando di sigarette nel 1994 nella sola BRD ha incassato un buon miliardo e mezzo di marchi. Da cui naturalmente si devono ancora detrarre i costi: trasporto, soldi per corrompere, salari, previdenza per gli anziani. Interpretato in altro modo dal calcolo risulta quanto segue: una stecca di sigarette di contrabbando costa al produttore 7 marchi, ai mediatori del mercato nero da 14 a 16, ai venditori formica da 27 a 32, all’acquirente da 32 a 35 marchi.
Solo a Berlino, uno dei centri del contrabbando e dello smercio di sigarette di contrabbando, nel 1994 furono sequestrati 85 milioni di sigarette, con un valore commerciale di 21,4 milioni di marchi. Il commercio illegale di un bene economico di queste proporzioni è possibile solo se a tutti livelli della produzione, della distribuzione e dell’amministrazione ci sono dei collaboratori. Esempio di via commerciale di una sigaretta di contrabbando: produzione in USA o Gran Bretagna; ditta commerciale svizzera ne commissiona a container; le sigarette vengono trasportate ufficialmente su TIR via Rotterdam e Lisbona verso la Lituania; durante il „transito“ per la Germania la merce „sparisce“, impiegati della dogana procurano i timbri che apparentemente attestano l’uscita dalla Germania; nei dintorni di Berlino la merce viene caricata su furgoni; i venditori formica si occupano della vendita al dettaglio.
A proposito di furgoni: il catalogo della casa editrice, che annunciava il titolo e il contenuto del presente romanzo, era già stato stampato quando alla rubrica „Polizeireport“ (rapporti della polizia) della „Berliner Zeitung“ si è trovato il seguente comunicato: „Controllando un furgone nei pressi di Herzsprung (Ostprignitz-Ruppin) giovedì la polizia ha trovato 500.000 sigarette non sdoganate. Altre 500.000 sigarette sono state scoperte dalla polizia venerdì su un furgone in un parcheggio sulla A24 nei pressi di Herzsprung.
E’ chiaro che i produttori di sigarette e le ditte di spedizione hanno a che fare con una specie di „impresa alternativa“, già da anni in imprese svizzere si parla di „Export II“ quando si parla del contrabbando.
Nel dicembre 1991 il governo italiano ne ebbe abbastanza. Non era più disposto a credere che la ditta Philipp Morris spedisse milioni di sigarette in Albania senza sapere che lì c’erano al massimo due dozzine di acquirenti in grado di pagarle. Naturalmente le sigarette approdavano in Italia via motoscafo. Il governo proibì, per così dire come avvertimento, ai produttori, per un mese la vendita ufficiale, legale delle sigarette prodotte dalla Philipp Morris. Questa vendette ancora di più al mercato nero.
Oltretutto i produttori guadagnano in determinate  condizioni tre volte tanto. Una volta con la vendita al mercato nero. Nel caso in cui le sigarette vengano sequestrate lo stato tedesco si affretta a toglierle dalla circolazione. Anni fa le merci sequestrate venivano messe in commercio a vantaggio dallo stato stesso. Ma le lobby del tabacco, con la motivazione che  depositate nei capannoni della dogana le sigarette ci rimettessero in qualità, e che poi era troppo costoso incollare successivamente il sigillo delle tasse sui pacchetti, hanno ottenuto che la merce di contrabbando venisse distrutta; il che significa che merce ormai già pagata viene tolta dal mercato e le ditte di sigarette possono iniziare il secondo giro di vendite. La Philipp Morris ci guadagna anche dalla distruzione delle proprie sigarette: siccome bruciarle alla lunga diventava troppo inquinante, si fa del kompost e delle sigarette viene fatta terra per fiori. Philipp Morris ha istituito con l’aiuto della ditta di cioccolatini Jakob Suchard a Brandeburgo un impianto di compostaggio dei rifiuti e ha offerto alla dogana tedesca di trasformare e vendere le sigarette di propria produzione già vendute e pagate come terra per fiori e concime. La Bundesrepublik Deutschland fornisce a tale scopo all’impresa Philipp Morris la materia prima gratis.
Pag. 57    Wir sind die junge Garde des Proletariats: Entrambe le canzoni si cantano con la stessa melodia. Segue confronto critico tra i testi delle prime tre strofe:
„Incontro all’aurora compagni di battaglie tutti!/ Presto vincerete su tutti i fronti/ presto fuggirà il muro degli avversari!/ Avanti con forza e tenete il passo!/ Gioventù dei lavoratori? Vuoi venire con noi?/ Siamo la giovane guardia/ del proletariato. // L’abbiamo sperimentato, il lato violento del lavoro/ in tristi anni infantili/ e presto siamo diventati vecchi./ Ha tintinnato al nostro piede,/ la catena che diviene solo più pesante./ Siamo la giovane guardia/del proletariato. // Vi tendiamo le mani, compagni tutti, per l’alleanza./ Non ci sia fine alla lotta,/ finché tutto intorno/ il libero popolo del lavoro non abbia vinto/ e ogni nemico sia prostrato./ Avanti, o giovane guardia/del proletariato.“ (testo di H.A.Eildermann, 1907; melodia: popolare.)
A Mantova nelle schiere, c’era il fedele Hofer/ a Mantova alla morte lo condusse la schiera nemica./ Sanguinava il cuore fraterno/ tutta la Germania , nell’onta e nel dolore./ Con lui la sua terra, il Tirolo/ con lui la sua terra, il Tirolo. // Con le mani sulla schiena andò Andreas Hofer/ con calmi forti passi: la morte poco gli sembrava/ la morte che lui già qualche volta/ dall’Iselberg aveva inviata in valle./ Nella santa terra del Tirolo/nella santa terra del Tirolo. // Ma quando dalle sbarre della prigione nella forte Mantova/vide tendere le braccia dei fedeli compagni d’armi/ grido forte: Dio sia con voi/ con il tradito regno tedesco/e con la terra del Tirolo /e con la terra del Tirolo. (Testo: Julius Mosen, 1831; melodia: secondo un canto popolare da Leopold Knebelsberger; oggi inno tirolese.)
Pag. 61    Prenzlauer Berg: quartiere di Berlino, ex est, 165.000 abitanti, una superficie di 11 chilometri quadri, viene definito „la più grande area di bonifica d’Europa“. Il che, secondo l’autore che ci ha vissuto per un po’ di tempo, è un’esagerazione tipica per un tedesco, che dell’Europa ha visto solo Rimini, la Costa Brava o le cartoline che mostrano le guardie della regina d’Inghilterra. Si tratta di uno dei pochi quartieri „tipici“ di Berlino con casermoni in affitto della seconda metà del secolo scorso. Verso il 1866 qui c’erano soltanto alcune centinaia di abitanti, mulini a vento, alcune fabbriche di birra, solo dal 1873 un castello d’acqua. In 40 anni diventò uno dei più densamente popolati quartieri della città, negli anni Trenta Prenzlauer Berg aveva oltre 350.000 abitanti.
(...)






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