Crepacuore (DDR)
Romanzo.
Haymon Verlag, 1995. Diogenes Taschenbuch, 2000
Traduzione di Susanna
Piccoli
Prologo
Ad un
certo punto verso le 4 del mattino avevo preso la mia decisione. Dopo
che per ore ero rimasto seduto sul letto a fissare il vuoto. C’era
qualcosa che andava nel modo sbagliato. C’era qualcosa che non era
sotto controllo. Dove facevo la mia comparsa entro breve tempo moriva
qualcuno. Questo fatto doveva avere una qualche spiegazione.
Vista
da oggi questa sicurezza, che nell’aprile 1992 mi aveva travolto
all’improvviso come una slavina di polvere, è un fatto estremamente
illusorio. Con il senno di poi penso che avrei potuto evitare alcune
delle cose da raccontare se avessi dato retta al comune senso della
ragione. Solo che allora ero più giovane di un paio d’anni. E
proporzionalmente più stupido. E poi soprattutto: allora non avevo
ancora sperimentato quanto poco possa bastare per togliere di mezzo un
uomo. Due conti in banca, un colletto più o meno bianco, un
collegamento satellitare e un margine di guadagno che superi di alcuni
punti decimali ciò che chiamano perdita. Questo è sufficiente. Non
avevo voluto crederlo. E allora mi ci hanno fatto sbattere il mio naso
impiccione piuttosto duramente.
Capitolo I
Era da tanto che non facevo così fatica a salire sul camion. Il terreno
non mi mollava, la macchina non mi lasciava salire.
„Tschenett", dissi, „Tschenett, parti. Cosa c’è che ti trattiene?"
Capitolo II
Berta aveva di nuovo regalato la sua ultima canottiera. Vabbé,
penultima.
La
cara Berta. Chi non sapeva come stavano veramente le cose avrebbe
potuto pensare che si lasciasse abbindolare senza cerimonie da un buono
a nulla come me. Grazie ai miei occhi neanche poi così blu. Non era per
niente così. La faccenda stava in modo completamente diverso. E
talmente complicato che nessuno sapeva come funzionasse.
Avevo
voluto offrire una cena. A Berta, la proprietaria sessantasettenne e
unica forza lavoro in questo bar non del tutto legale della sperduta
valle di Fleres. E a Totò, che con i suoi trent’anni passati da poco
era più giovane di me di qualche anno, che però, in compenso, faceva lo
sbirro nella Polizia di Stato.
Offrire una cena, per me non
significava agitare una di quelle tessere magnetiche, gridare paga il
vecchio e prendere a calci il cameriere quando solo era possibile.
Offrire una cena significava: apparecchiare. Cucinare. A me serviva per
tenere i nervi sotto controllo e finora gli altri erano sempre
sopravvissuti.
Per questo motivo, e poi perché non sapevo se mi
sentivo particolarmente male o particolarmente bene, avevo deciso di
offrire una cena. Senza prima chiedere alla mia banca che cosa ne
pensavano.
Per cui andò a finire che non soltanto Berta aveva dovuto
spostare il suo giorno di riposo al martedì e mettere a disposizione la
cucina e il bar. Ma anche finanziare gran parte degli acquisti
necessari.
„In cambio lavo i piatti", le avevo detto quando mi aveva messo in mano
la banconota da centomila.
„Sì", aveva detto.
„E i soldi te li mando dal viaggio. Non appena avrò incassato il
compenso di un trasporto."
„Sì sì."
Non so perché, ma mi ero sentito mancare. „Non ti va bene, Berta?"
„Certo,
certo. Vai ora", aveva detto spingendomi fuori dalla porta, aveva preso
una scopa e si era messa a spazzare lentamente e accuratamente i tre
scalini davanti al bar.
Mi ero fermato un paio di passi più avanti. A metà strada dal camion.
„Se
ti dico che va bene", aveva detto Berta dopo un po’. „Vai. Che poi devi
anche cucinare, se vuoi finire per tempo. In modo che tu possa partire
per tempo."
Tre ore dopo avevo comperato due cartoni pieni di roba,
bevuto tre bianchi, dato a Berta un bacio sulla fronte e mi ero messo
ai fornelli.
In realtà era stata tutta colpa di Rico.
A
Montegaldella, un’area di servizio autostradale a nord di Mantova,
avevo incontrato un vecchio conoscente. Ci eravamo concessi un caffè
extra e avevamo iniziato a chiacchierare. Di tutto quello che era
successo dall’ultima volta che ci eravamo visti. E di quello che non
era successo. E di quello che sarebbe potuto succedere.
A me non
dispiaceva, dalla mia tabella di marcia risultava chiaramente che già
da molto avrei dovuto fare una pausa. Puramente per legge. Ma da queste
pause il capo non ne ricava niente, l’autista non troppo e al resto del
mondo è indifferente.
Freddy, che quando non era in servizio si
chiamava Rico, mi raccontò della moglie e dei bambini, poi della sua
seconda donna e degli altri suoi figli, dei suoi due mastini e del
nuovo camion che si era comperato. E di cui era almeno altrettanto
entusiasta che dei bambini. Cosa che mi fece diventare un po’
pensieroso. In effetti, avevo visto quel catorcio quando lo aveva
parcheggiato. Era un vecchissimo Fiat, da sette tonnellate e mezzo, con
tre strati di vernice, quattro strati di ruggine.
Ma Freddy amava il
suo camion. E Rico amava le sue donne e i suoi bambini. E i cavalli.
Che al momento stava trasportando. Tagliati in metà e quarti.
„Bona
roba", disse. Aveva premuto l’indice contro il pollice, li aveva messi
di sbieco, fatti passare da sinistra a destra sulla bocca inspirando
l’aria e producendo un fischio.
Un quarto d’ora più tardi e dopo che
eravamo riusciti a farci strada tra i pezzi di carne, tirò fuori un
coltello indicando con esso uno dei pezzi e disse: "Puledro."
Così andò a finire che io avevo il puledro e Berta scuoteva la testa.
„No", disse, quando seppe che cosa sarebbe stato portato in tavola per
cena.
„Non lo mangio", disse Berta. „Nemmeno se me lo fai ingoiare a
pezzettini. Io non lo mangio, il puledro. Non finché vivo."
„Prima devo comunque cuocerlo", dissi.
"Tschenett...", disse Berta.
La faccenda diventava seria, se mi rivolgeva la parola in modo così
ufficiale.
„Tschenett", disse Berta, „perché lo fai?"
„Cosa?" dissi sperando che avesse pietà e contando sul fatto di fare
finta di non capire.
„La cena", disse Berta senza pietà. „Vuoi partire di nuovo? Non ce la
fai più a restare?"
Le
domande di Berta erano arrivate troppo presto per me. Davvero troppo
presto. Non lo sapevo ancora neanch’io. A momenti. A momenti invece sì.
Berta si girò immediatamente. E si allontanò.
„Le galline", disse. E mi lasciò lì così.
Mi
misi al lavoro con le verdure. Dovevo pulire le carote, le zucchine e
gli spinaci. Ci volle del tempo. Ma Totò staccava comunque solo alle
sette, e poi avevo bisogno di tempo per pensare.
All’area di
servizio Rico mi aveva dato le bistecche di puledro. C’eravamo
abbracciati brevemente e con forza un’altra volta e poi avevamo
continuato il viaggio, ognuno nella propria direzione.
Per me voleva
dire andare in direzione Kiefersfelden con un carico di Chianti a buon
mercato. Là avevo consegnato il rimorchio alle ferrovie tedesche e ero
ritornato al Brennero. Sempre con il puledro sul sedile accanto al mio.
Quando
poi mi ero trovato davanti alla porta del mio appartamento nella casa
Waldfrieden a Maria di Trens e avevo guardato il caos che si estendeva
dietro di essa, quando poi era arrivato anche il Colonnello Amorino
Paganotto, che era conduttore di cani antihascisc della Guardia di
Finanza nonché mio vicino, nel senso che abitava al piano sotto il mio,
questo colonnello, nel cui appartamento un paio di mesi prima avevo
dovuto subire un duro interrogatorio da parte di uno scoppiato sbirro
della squadra speciale mandato da Bolzano, dopo che mi avevano
prelevato nel bar di Candalostia dove mi stavo accingendo a bere una
tequila importata con una rossa del profondo nord, quando dunque era
spuntato dietro di me questo colonnello dicendo qualcosa a proposito di
riscaldamento e conteggio dei consumi per il riscaldamento, non ce
l’avevo più fatta.
A quel punto il mio amico Totò poteva abitare
dieci volte nel piano sopra il mio e cercare di domare gli spiriti dei
tutori dell’ordine che aleggiavano nella casa.
Non ce l’avevo più
fatta. Senza una parola avevo chiuso la porta in faccia al colonnello,
mi ero poi appoggiato ad essa lasciandomi scivolare lentamente a terra.
Ero rimasto seduto lì con il puledro in mano e per molto tempo non
avevo fatto nulla. Dovevo andarmene. Per lo meno traslocare. Se questo
poteva bastare.
(…)
Capitolo XIV
(…)
Con
il tempo avevamo avuto fortuna. Il cielo era coperto da una sottile,
grigia coltre di nubi. Ma ancora non sembrava dovesse nevicare.
Il
viottolo ora scompariva di nuovo nel bosco e contemporaneamente si
perdevano i rumori del cantiere della galleria che ci avevano
accompagnati fin qui.
Mi concentrai sulla marcia. E dimenticai il
resto. Un piede davanti all’altro. Un passo dopo l’altro. Lentamente le
scarpe del muratore sembravano diventare più grandi. Inspirare, passo,
passo, espirare. Ad un certo punto riuscii a pestare esattamente nelle
orme del vecchio. Passo per passo.
Kalmsteiner prese un irto sentiero che saliva alla sinistra del
viottolo. Iniziai di nuovo a respirare affannosamente.
Doveva
essere un sentiero di cacciatori. O di contrabbandieri. Terribilmente
scosceso e stretto. A tratti i rami impedivano il passaggio.
Kalmsteiner sgattaiolava tra la vegetazione selvatica come se non
avesse mai fatto altro. Avevo difficoltà a stargli alle calcagna.
Da
una piccola radura si poteva vedere la valle. In lontananza c’era il
paese. Sopra di esso il viadotto dell’autostrada. Fin qui si potevano
ancora sentire i TIR.
„Non restare fermo lì in mezzo" disse
Kalmsteiner. Si era girato. „Da ogni luogo che tu puoi vedere, puoi
anche essere visto, non dimenticarlo. E non è che nessuno non stia
attento."
Aveva ragione. In effetti, non eravamo qui per
divertimento. Anche se come pretesto potevamo sempre dire che stavamo
passeggiando. Non importava quanto fosse ridicola come scusa a fine
marzo. Ma preferivo evitare un controllo delle carte di identità.
Kalmsteiner si era seduto su un ceppo d’albero sotto un cespuglio,
nella boscaglia, e stava slacciando il suo zaino.
„Siediti qui" disse.
Mi accucciai vicino a lui.
„Visto
che ci siamo fermati, possiamo anche mangiare qualcosa. Più tardi non
avremo più tempo," disse e mi diede un pezzo di pane duro e uno di
formaggio.
„Dieci minuti più in alto saremo fuori dal bosco" disse.
„Poi viene il tratto in cui dobbiamo sbrigarci il più possibile. La via
dei russi."
„Via dei russi?" dissi.
„Si chiama così, è stata
costruita da prigionieri di guerra" disse Kalmsteiner. „In realtà è
abbastanza nascosta. Ci sono soltanto un paio di punti da cui può
essere vista dalla strada del Duce."
„Strada del Duce…"
„L’ha
fatta costruire Mussolini negli anni Venti, su fino in cima al Kühberg.
E poi a destra fino all’altezza del passo del Brennero. Qui davanti era
troppo ripido per costruire una strada." Kalmsteiner si tagliò un altro
pezzo di formaggio. „I finanzieri salgono a fare il giro di pattuglia
fino a duemiladuecento metri con le jeep. Stanno seduti e si guardano
intorno con i cannocchiali. Stupidi non sono, bisogna riconoscerlo. E
su, sulla cresta, dove passa il confine, ci sono un paio di loro
colleghi in pattuglia. Se quelli della jeep li guidano correttamente
via radio, in cima non devono fare altro che aspettare tranquillamente
che uno di noi arrivi tutto sudato."
Kalmsteiner tirò fuori dallo zaino una bottiglia di vino.
„Tieni", disse e me la porse.
Feci un sorso.
„E se ci dovessero vedere?" dissi.
„Non
ci vedranno", disse il vecchio, „non ci vedranno. Per questo ci sono
qui io. Lascia fare a me, ragazzo. Fai semplicemente quello che ti
dico. Senza fare tante domande."
Annuii soltanto e ruminai il pane duro.
„Bene", disse il vecchio, allacciò lo zaino e guardò sull’orologio da
taschino, „E’ ora di andare."
Ingoiai l’ultimo boccone e mi alzai lentamente in piedi.
„Le scarpe?" disse il vecchio.
„Possono andare. Va meglio ora."
„Allora
stai attento. Non appena siamo fuori dal bosco, devi camminare dietro
di me alla distanza di due passi. Esattamente due passi. E fai tutto
quello che faccio io. Non parli. E ti sbrighi. Finché non siamo
dall’altra parte. Finché non te lo dico io. Capito?"
Annuii di nuovo.
Kalmsteiner si mise lo zaino in spalla e iniziò a camminare. Con un
passo lento e regolare.
Io dietro. Le scarpe stringevano di nuovo.
Camminare, Tschenett, e respirare, pensai. Tra due ore è tutto passato.
Fidati del vecchio.
Quando ebbi lentamente ripreso il ritmo il bosco si diradò. C’erano
soltanto alcuni alberi isolati.
Kalmsteiner
si era fermato e perlustrava con il binocolo i pendii alla nostra
destra. „Per i welsche, gli italiani, stamattina è ancora troppo freddo
e troppo presto", disse. „Andiamo."
E poi partì. Aveva accelerato
almeno di una marcia, il vecchio. Facevo fatica a seguirlo. Due passi,
Tschenett, due passi dietro di lui. E senza farsi venire il fiatone.
Salimmo
per un sentiero ripido, tra rocce e cespugli. Il vecchio procedeva
ostinatamente con lo stesso ritmo sostenuto e aveva anche il tempo di
guardarsi attorno. Io, invece, avevo il mio bel daffare a non restare
indietro.
Poi il sentiero divenne ancora più ripido, nelle crepe tra le rocce
c’era neve. Sprofondai fino alle ginocchia.
„Avanti" disse soltanto il vecchio.
La faceva facile. Era pelle e ossa e pesava sicuramente dieci chili
meno di me.
Attraversammo
in diagonale verso l’alto un campo di pini mughi. Ora avevo per lo meno
qualcosa a cui aggrapparmi quando scivolavo sulla neve.
Vicino alla
Groenlandia, quando facevo il marinaio sul peschereccio avevamo delle
funi metalliche tenendoci alle quali ci tiravamo in avanti quando il
ponte era ghiacciato. Più o meno così mi sembrava di fare ora.
All’improvviso
Kalmsteiner si inginocchiò, si girò verso di me e mi fece un segnale.
Capii e mi strinsi il più vicino possibile ad una roccia. Il vecchio
prese il binocolo, perlustrò i paraggi e mi fece poi un altro segnale.
Strisciai verso l’alto da lui.
„Fuori sull’angolo c’è una jeep", disse. „Ma girata nell’altro senso.
Non credo che ci abbiano visti."
„E allora?" dissi.
„Aspettiamo. Aspettiamo."
„Per quanto?"
Il vecchio mi guardò, si aggiustò il cappello e sorrise.
„Fortuna non se ne deve avere se si vuol passare la montagna" disse
poi. „Fortuna no, ma pazienza sì."
Avevo capito la lezione. Allora pazienza.
Almeno la sosta forzata mi dava la possibilità di riprendere fiato.
„Quanto manca ancora?" dissi.
Il vecchio aveva di nuovo portato agli occhi il binocolo.
„Ancora su per la Schatzgruben", disse, „e poi verso il passo. Un’ora,
alla tua andatura. E se non c’è più neve di qui."
Allontanò di nuovo il binocolo.
„Allora?" dissi.
„La
jeep è ancora lì. Stanno dentro seduti, quei pigroni. Non può durare
ancora a lungo. Presto si annoieranno e andranno via. Finché si
allontanano scendendo dalla montagna a noi sta bene."
Ancora un’ora. E poi un’altra volta lo stesso tragitto in giù verso
l’Austria.
Lentamente,
ma inesorabilmente, il gelo delle rocce e della neve si insinuava sotto
i miei vestiti. Mi picchiai sulle gambe e sulle braccia. Kalmsteiner mi
guardò e sorrise.
„Non era niente male il cavallo italiano che hai cucinato", disse poi.
Lo guardai stupito. Era l’ultima cosa a cui avrei pensato ora.
L’attesa
non sembrava disturbare Kalmsteiner. A tratti sbirciava oltre la roccia
per controllare la situazione, borbottava qualcosa, si aggiustava il
cappello e per il resto del tempo guardava per aria.
„Domani", disse, „domani già non si sarebbe potuto più fare. Domani
nevicherà."
Seguii il suo sguardo, ma non riuscii a vedere niente di particolare.
„Alla tua età ancora non si sente nelle ossa. Per cui è più difficile
prevedere che tempo farà."
Mi aveva osservato. E ora mi stava ancora guardando.
„Non che m’importi", disse poi, dopo un po’ di tempo, „non m’importa.
Però mi meraviglia."
„Cosa?"
Non rispose subito.
„Perché vuoi passare dalle montagne."
Risi
brevemente. Era vero. Questo vecchio contrabbandiere, che in realtà era
in pensione da molto tempo, mi stava conducendo oltre la montagna. E
non sapeva neanche perché non volevo passare per la via legale.
„Kalmsteiner",
dissi, „non prendertela a male. Mi sono semplicemente dimenticato di
dirtelo. Non ho pensato che tu non lo sapessi."
„Fa lo stesso", disse.
„In realtà è semplicissimo", dissi. „Ho legato un poliziotto con le sue
manette ad un camion."
„Einen Welschen, un italiano?"
„Si. Un italiano."
„Mi piaci sempre di più, Tschenett", disse Kalmsteiner.
„Al poliziotto non sarà piaciuto."
„Immagino,"
disse Kalmsteiner. „Avevi ragione. E’ meglio che passi dalla montagna."
Prese di nuovo il binocolo. „Complimenti", disse. E poi: „Sono andati
via. Andiamo."
I primi passi li feci inciampando in avanti. Non
sentivo più i piedi. Ma Kalmsteiner procedeva ad una tale andatura che
non avevo il tempo di lamentarmi. Nel frattempo il sentiero diventava
sempre più scosceso. Era ghiacciato e coperto di neve. Avevo il mio bel
daffare per non andare un passo in avanti e due indietro. Stavamo
salendo su per uno stretto crepaccio. Se scivoli qui, Tschenett, in
quattro secondi ti ritrovi giù a valle, pensai.
„Attenzione", disse Kalmsteiner, „Attenzione. Guarda attentamente dove
metti i piedi. Segui me."
Se
qualcuno il giorno del puledro mi avesse detto che il Kalmsteiner ed io
ci saremmo rivisti in una simile circostanza, lo avrei preso per
completamente rimbecillito.
(...)
Capitolo XXII
Herzsprung, che significava crepacuore, Herzsprung era un paese di 250 anime.
„Dirigiti a Herzsprung“, dal cellulare la padroncina mi aveva ordinato
di cambiare destinazione. „Prendi la statale 24, in direzione Rostock,
si trova poco prima di Wittstock.“
Mi ero rifiutato. „Dai nostri accordi la destinazione doveva essere Berlino“, dissi, „e io vado a Berlino.“
Due minuti più tardi avevo al telefono il capo. O per meglio dire: era il capo ad avere me al telefono.
„Tschenett, o come diavolo si chiama“, aveva detto, „La destinazione Berlino è soppressa. Si diriga a Herzsprung.“
„Ho un appuntamento a Berlino, capo.“ Era vero come una promessa elettorale. Ma non avevo semplicemente voglia di cambiare meta.
„Stia attento“, aveva detto il capo, “niente scherzi. Abbiamo dovuto
cambiare programma, e anche Lei è tenuto a cambiare programma. Se su
questo vi è anche il minimo dubbio, Lei è licenziato. Subito. Scenda al
prossimo parcheggio. Ce ne sono a sufficienza di quelli come Lei che
possono proseguire il viaggio. Per tre marchi e cinquanta di sicuro.“
Tre marchi e cinquanta erano un argomento a cui non sapevo resistere.
Mi facevano perfino dimenticare il tono con cui mi aveva rivolto la
parola.
„Herzsprung“, dissi, „va bene. Suono un po’ macabro, ma comunque. Sembra avere un significato.“
„Se ne sbatta del nome“, disse il capo, „conduca là il TIR e basta. Le successive istruzioni le riceverà sul posto.“
„Agli ordini, sir“, dissi.
Dunque Herzsprung. Il nome rispecchiava il mio stato d’animo. Ad ogni modo anche lì avrei trovato un sorso o due.
Diligente come un idiota ero uscito dall’autostrada al momento giusto.
Sullo schermo della padroncina avrebbe lampeggiato un quadrato. E lei
avrebbe annuito. Bravo, Tschenett, bravo. Bravo e ubbidiente per tre
marchi e cinquanta.
Iniziavo ad odiare quell’aggeggio che inviava il segnale al satellite.
Apparecchio di merda. Era un cordone ombelicale. Un guinzaglio.
Poco prima di arrivare a Herzsprung suonò il telefono.
„Entri dritto in paese, fino all’incrocio. Non può sbagliare. Ne ho
solo uno sullo schermo. A sinistra dietro l’incrocio deve esserci una
casa. Su cui c’è scritto Herzsprung. Locale da ballo. Parcheggi lì.
Passerà uno dei nostri uomini.“
„Perché non lei, padroncina?“ dissi. „Locale da ballo suona bene. Potremmo divertirci un mondo.“
„Non ballo.“
„E allora perché mi mandate qui?“
„Per lavoro“, disse la padroncina, poi si sentì tututu, aveva riagganciato.
Herzsprung, era fatto di due strade che si incrociavano, e una terza
che partiva dall’incrocio. Herzsprung, era fatto anche dei campi e
boschi, che si estendevano dove finivano gli orti delle quattro case. E
Herzsprung era fatto di un parcheggio nascosto dietro ai cespugli, di
fronte al locale da ballo chiamato Herzsprung. Di più non c’era. E il
parcheggio era vuoto, ad eccezione di due furgoni.
Scesi dalla motrice Vovol, chiusi a chiave e feci un giro per il paese.
Niente. Morto. Non un essere umano per strada. Nonostante mancasse
ancora mezz’ora al calare dell’oscurità.
Poi mi fermai davanti al locale da ballo. Forse servivano da bere anche
se si voleva solo stare seduti. E forse finalmente sarebbe comparso
anche l’incaricato della ditta Zantrans.
Il locale da ballo Herzsprung non doveva avere ancora visto giorni
migliori. Perché così fosse i bei tempi erano passati da troppo tempo.
E i nuovi tempi erano troppo nuovi. Non avevano portato molto di più
del cuore di neon rosso attraversato da una crepa e la scritta sulla
facciata della casa. Di sicuro non dei clienti. Per lo meno non a
quest’ora.
Il locale era deserto. La musica suonava, tre luci da discoteca
lampeggiavano davanti a sé, una sfera a specchi girava. Non si muoveva
altro.
Mi sedetti al banco e aspettai. Aspettavo qualcuno che potesse portarmi
qualcosa da bere e qualcuno della ditta Zantrans. Quando, dopo cinque
minuti, non si era ancora fatto vivo nessuno, chiamai il cameriere, tre
minuti dopo feci cadere a terra un portacenere. Non comparve nessuno.
Lentamente mi stavo scocciando.
In segreto continuavo ancora a sperare di potermene andare in una città
quella sera. La più vicina degna di tale nome era Berlino. Con la
motrice era comoda da raggiungere. Distava un’oretta scarsa.
Nell’angolo più recondito del locale si aprì una porta. Una donna
giovane e magra si mise dietro al bancone e mi guardò senza dire una
parola.
„Allora“, dissi, „c’è qualcosa da bere?“
„E cosa?“
„Birra.“
„Radeberger.“
„Va bene“, dissi, „una Radeberger grande.“
Spillò la birra tutta in una volta, nel modo più maldestro possibile, e scomparve di nuovo.
Almeno mi ero avvicinato di un passo alla felicità. Anche se soltanto
di uno piccolo. Non bere troppo, Tschenett, pensai, se ti fanno
ripartire ancora oggi è meglio che tu non abbia bevuto troppo. E dalla
Zantrans ci si poteva aspettare di tutto. „La Zantrans può andare a fan
culo“, dissi.
„Cerca di non farti sentire dal capo“, disse una voce alle mie spalle. Mi girai. E non potei credere ai miei occhi.
Tschenett, vedi anche i fantasmi adesso, pensai. E tornai ad occuparmi della mia Radeberger. Per un paio di secondi ci riuscii.
„Cosa c’è, non riconosci più un vecchio compagno?“
Effettivamente c’era una certa somiglianza. E anche la voce me lo ricordava.
„Ralle?“ dissi.
„Giusto, Tschenett, vecchia spugna.“
Era veramente Ralle. E poi ci abbracciammo. C’eravamo conosciuti a San
Silvestro del millenovecentottantanove, poco dopo il crollo del muro e
da allora non c’eravamo più visti. Ralle, chiamato Ralf fino al suo
undicesimo anno di età, e da allora in poi sempre solo Ralle.
„Cosa ci fai in questo buco?“ dissi.
„Quello che fai tu. Ci lavoro.“
„Come se tu avessi mai lavorato, vecchio mio.“
Ralle scivolò sullo sgabello affianco a me.
„Non lo faccio nemmeno ora“, disse. „Vengo solo pagato come se lavorassi, capisci?“
„Non capisco.“
Se aveva scoperto un nuovo trucco, doveva raccontarmi di cosa si trattava.
„Alla prima occasione ti spiego“, disse Ralle. „Prima offro un giro.“
„Generoso da parte tua“, dissi.
„Generoso per niente. Il locale è mio.“
„Da quel che sembra non ti farà diventare ricco.“
„Più tardi“, disse Ralle e picchiò con un grosso mazzo di chiavi sul
bancone, „più tardi migliora un po’. E’ jottweedee. Ma finché si
riescono a fare un paio di marchi a tempo perso può andare. Niente
paura, vecchio mio, ancora non sono ridotto alla fame.“
In effetti conoscendo Ralle mi sarebbe stato difficile immaginarlo.
„Non arriva di nuovo nessuno“, disse.
Solo ora capii che aveva sbattuto le chiavi per chiamare la cameriera. Perché poi avrebbe dovuto riuscirgli meglio che a me.
„Va bene“, disse, „allora il capo si versa da bere da solo. E quindi il bicchiere sarà meno pieno.“
„Ma non se si tratta del mio“, dissi.
„Vediamo“, disse Ralle e scomparve dietro al bancone.
Anche lui si avviava come me a grandi passi verso i quaranta e aveva
parecchie storie alle spalle. Nelle primissime ore del mattino del
millenovecentonovanta c’eravamo raccontati l’un l’altro la storia della
nostra vita. Dopo che c’eravamo incontrati per caso, due persone
completamente estranee, che erano annoiate dai divertiti festeggiamenti
che li circondavano, da quella allegria di cui i teutonici sono preda
puntualmente e su prescrizione una o due volte all’anno e che passa
altrettanto velocemente come è arrivata.
Ralle ed io appartenevamo di più alla categoria di persone che
preferiscono festeggiare tutto l’anno, senza nessun motivo e in modo
del tutto incontrollato. Chi appartiene a questa specie riconosce
subito il suo simile, anche in un locale stracolmo di gente. Così Ralle
ed io ci eravamo incontrati. Avevamo girovagato per la città, finché in
un locale non avevamo trovato comodo e meno capodannesco. C’eravamo
stretti dietro al tavolo e eravamo rimasti seduti.
Ralle era cresciuto ad Oranienburg, alle porte di Berlino, come diceva
con il petto rigonfio di orgoglio, finché non lo colpii allo stomaco e
tutta l’aria ne uscì.
Non aveva avuto fortuna a scuola, ma in compenso ne aveva avuta nella
Nationale Volksarmee. Aveva fatto un addestramento speciale come
sommozzatore della marina, per tre anni, finché la cosa non era
diventata troppo stupida per lui e i suoi capelli non erano diventati
un po’ troppo lunghi. Poi si era tenuto a galla con un lavoro
qualsiasi, non sempre del tutto legale, non sempre del tutto
socialista. Non era un cittadino esemplare della DDR. Ma neanche uno di
cui sarebbero stati soddisfatti nell’ovest. Tutto era stato tranquillo
per i successivi vent’anni.
Fino al 7 ottobre 1976. Nei pressi della torre televisiva c’era stato
un concerto rock, Ralle c’era andato, come migliaia di altri, per
ascoltare un po’ di musica, non se ne aveva spesso l’occasione al
Telespargel, e si erano divertiti, avevano bevuto un paio di birre e
avevano ballato e all’improvviso aveva ceduto il pavimento. Era
crollata una fossa di ventilazione, tutti si erano fatti prendere dal
panico e Ralle aveva cercato di mettersi al sicuro. Era scappato, in
direzione Alexanderplatz.
I Vopos avevano chiuso il tunnel sotto l’Alexanderplatz, perché avevano
pensato che stesse succedendo chissà che cosa, una rivolta popolare o
qualcosa del genere, avevano controllato ogni singola persona, piedi
attaccati al cordolo, braccia incrociate sulla nuca, gomiti alla
parete, e poi un calcio dall’interno sui piedi, facendoci rimanere lì
così per l’intera notte, aveva raccontato Ralle, conosco il sistema,
avevo detto io e mi ero ricordato di Vienna e dell’unità speciale che
in Austria chiamavano Cobra, e poi via in galera, rinchiuso per tre
giorni, con interrogatori e tutti gli annessi e connessi, contestandomi
tutto, tutto quello che potevo aver fatto, cose tipo aver attraversato
con il rosso sulle pedonali il giorno tal dei tali, e questo con il mio
passato da militare, e io sempre ostinato, non avevo fatto niente a
nessuno io, proprio niente, aveva raccontato Ralle, e era poi stato
condannato a due anni e mezzo, per rowdytum e alcolismo o qualcosa del
genere e poi ancora a altri tre anni di galera per rissa, uno voleva
pestarmi mentre ero al cesso, non potevo lasciarlo fare, e allora me ne
diedero tre in più, faceva anche lo stesso.
E quando poi era uscito di galera, non era più riuscito a rimettersi in
sesto, non me ne fregava neanche più niente di tutta la faccenda,
allora in estate, travestito da pittore paesaggista, era andato a
Ahrenshoop, zona balneare della Stasi sul Baltico, sai, e con due
compagni, con il cavalletto e uno zaino enorme sulle spalle, si erano
addentrati nella zona vietata, e una notte erano partiti sul gommone,
senza un solo pezzo di metallo, per via dei radar e simili, non ero
mica stato in marina per niente, scappando via mare, confidando nei
muscoli delle loro braccia e nei calcoli delle correnti di Ralle,
Marina, non dico altro, ed erano sbarcati in Danimarca dopo due notti e
un giorno felici e affamati.
E lì tutto era ricominciato da capo, Ralle non aveva ancora messo la
testa a posto, si era aggirato per Amburgo e, cosa che non avrei mai
creduto, gli era venuta nostalgia, dei broilern, delle Karos, di tutto,
e quando poi all’improvviso il muro non c’era più, sono tornato.
Subito. Non che la cosa mi interessasse politicamente, no, ma voleva
tornare a Berlino.
E così la notte di San Silvestro millonovecentoottantanove ci eravamo incontrati. Per puro caso.
E ora di nuovo.
„Due Radeberger, tre centimetri sotto la linea di riempimento“, disse Ralle e mise i bicchieri davanti a noi.
„Truffatore“, dissi.
„Zitto, vecchio mio“, disse Ralle e tornò dalla mia parte del bancone.
„Non dico niente comunque.“
Ralle mise il braccio sulla mia spalla sinistra.
„E tu non ne hai ancora abbastanza?“ disse.
„Di che cosa?“
„Di fare camionista.“
„Non so fare altro“, dissi.
„Questa non è una buona ragione.“
„Forse no.“
„Vedi. Già inizia a ragionare l’omino che hai qui dentro.“
Mi aveva colpito sulla nuca.
Quando Ralle si comportava così doveva avere un asso nella manica. Niente era gratuito con Ralle.
„Dì quello che hai da dire, Ralle.“
„Non ancora“, disse e si alzò.
Nel frattempo erano arrivati nel locale un paio di clienti. E lo stesso continuava a sembrare vuoto.
„Spostiamoci in un luogo più appartato“, disse Ralle. „Qui inizia lentamente a riempirsi.“
„Per sei o sette persone?“ dissi.
Andando via Ralle ordinò alla cameriera due cene.
„Roba per il capo“, disse, „e in fretta.“
Lei annuì soltanto e scomparve nella porta sul retro.
„Hai fame, o no?“ disse Ralle, dopo che ci fummo accomodati ad un tavolo nell’angolo più nascosto del locale da ballo.
„Certo“ dissi e poi, dopo una pausa,: “Allora…“
Ralle mi interruppe.
„L’abitudine di mangiare ogni giorno sempre alla stessa ora, puntuale
al minuto, mi è rimasta dalla galera. Vengo letteralmente assalito
dalla fame. Puntualmente alla stessa ora. Ci ho messo due anni a far
slittare la cena dalle diciotto alle ventuno. Non ci si libera tanto
velocemente della galera“.
Ralle si guardò intorno.
„Non me ne intendo molto“, disse poi, „e da noi la gastronomia non è
mai stata una gran cosa. Tu vieni pur sempre da una zona turistica.
Cosa pensi che si possa guadagnare con una bettola del genere?“
Diedi un’occhiata alla sala. Se già sul lato anteriore il locale aveva
dato un’impressione triste, qui dietro era finita del tutto. Era
grigio, scadente, trasandato. Nonostante non potesse avere più di tre
anni. Chi si sedeva qui dentro di sua volontà doveva essere di
Herzsprung, non avere amici, non avere la patente e non avere sangue
nelle vene, altrimenti non era del tutto normale. Non era un locale in
cui si entrava una seconda volta. Era mortale. Triste. Noioso.
„Cosa si può guadagnare con un posto come questo?“ dissi.
„Un bel niente. Cerca di liberartene, prima che tutti si siano accorti che non vale un accidente.“
„Primo: hai ragione. Secondo: non hai ragione“, disse Ralle. „Non c’è
niente da guadagnare con il locale. Non un marco stanco. Giusto. Ma non
lo venderò.“
„E perché no?“
„Arriva da mangiare“, disse Ralle.
E mi lasciò sulle spine per la successiva mezz’ora. Non rispose a
nessuna domanda, parlo di Dio, del mondo e del tempo, di tutto, ma non
si avvicinò al nostro tema. Per due volte suonò il suo cellulare, disse
sì e no e non molto di più e io sapevo perché: voleva torturarmi. Una
mossa tatticamente intelligente. Dunque gli avevano insegnato qualcosa
in marina, al vecchio sommozzatore da battaglia.
Poi svuotò il suo piatto, anch’io il mio, fece portare una seconda
bottiglia di Bardolino e all’improvviso, come per incanto, comparvero
alcuni minorenni, dieci minuti più tardi perfino qualcosa di simile ad
un disc-jockey. Quando aggrottai la fronte per via della musica che
attaccò, Ralle alzò brevemente il braccio, e mezzo minuto più tardi
l’addetto ai dischi mise sul piatto della musica che si avvicinava di
più all’età media del nostro tavolo. Ai minorenni Ralle offrì un giro
di Cuba libre.
„Un po’ troppe cerimonie per un colloquio di lavoro“, dissi, „ed è questo che deve diventare, o sbaglio?“
„Dipende da come lo si prende“, disse Ralle. „Si può anche considerare una chiacchierata tra amici. Decidi tu.“
„Deciderò più tardi“, dissi, „prima fammi ascoltare.“
Ralle prese il cellulare e lo spense.
„Al momento fai dei trasporti per la Zantrans,“ disse. „Sei soddisfatto?“
„Pagano puntualmente. In contanti. E non male.“
„Vuoi guadagnare il doppio? Almeno. Il triplo?“
„Di che cosa stiamo parlando?“
„Cinquemila marchi, netti. Tanto per iniziare.“
Cinquemila. Non male. Erano parecchi soldi.
„Vuoi che mi faccia licenziare?“ dissi.
„No“, disse Ralle, „assumere.“
Riflettei brevemente.
„Zantrans?“
„Giusto. Continui a lavorare per Zantrans. Ma appunto con me.“
„Per cinquemila?“ dissi. „Cosa c’è di marcio?“
„Per te, non più di quanto non ci sia già finora“, disse Ralle.
La faccenda si faceva interessante. Per un istante mi passò per la mente la padroncina, con passi lunghi e con la rincorsa.
„E cosa c’era di marcio?“
„Tschenett“, disse Ralle, „non mi dire che non ti sei ancora accorto di nulla. Cazzo, così rimbambito non puoi essere.“
„Ero proprio intento a lavorarci su“, dissi. „Le soste di riposo, le
telefonate, i limiti di velocità, il satellite. Sembra che quelli si
comportino come te, che non vogliano fare affari.“
Ralle mi guardò in attesa. Lo guardai a mia volta.
„Avanti“, disse Ralle.
„Perché uno non vuole fare affari?“ dissi.
Ralle aspettava.
Mi versai un altro bicchiere. Non c’erano molte alternative. Per essere
più precisi: ce n’erano solo due. Avrei dovuto arrivarci prima. Molto
prima. Perdi colpi, Tschenett, pensai. Una volta o l’altra ti costerà
la testa. Più presto di quanto non pensi, se non stai attento.
„Perché?“ disse Ralle.
„Perché uno non vuol fare affari?“ dissi. „O per motivi religiosi, che equivale a dire che è pazzo. Oppure…“
„Oppure…“ Ralle voleva concludere la faccenda.
„Oppure perché parallelamente sta facendo degli affari molto più redditizi di cui nessuno deve sapere niente.“
„Non male“, disse Ralle, „e di che cosa stiamo parlando?“
„Automobili?“
Ralle scosse il capo. „No.“
„Droga...“
„Non del tutto.“
„Puttane?“
„Pensaci con calma“, disse Ralle, „e non parlare sempre di donne. Cosa può starci in un TIR?“
„Molte cose.“
„Ed è quadrato, pratico, buono?“
Ne avevo abbastanza.
„Lascia perdere il giochetto, Ralle“, dissi. „Sputa il rospo. Dimmi di che cosa stiamo parlando e dimmi che cosa vuoi da me.“
„O.k.“, disse Ralle. „Immaginati un container pieno di sigarette.“
Avevo capito al volo. Gorgonzola, il camion, il carico.
„Sulla via dalla fabbrica al fumatore incallito“, disse Ralle, „il
container acquista un valore di circa due milioni di marchi. Dazi e
tasse. Capito?“
Naturalmente. Il conto era semplice. E il guadagno maledettamente alto,
nel caso uno fosse riuscito ad inserirsi tra fabbrica e acquirente.
„Zantrans?“ dissi.
Ralle annuì leggermente con il capo.
„Anche.“
„E la padroncina?“
Ralle sogghignò.
„Dimenticala.“
„E tu?“
„Io organizzo la distribuzione qui alle porte del mercato di smercio,
sezione nord ovest della Germania. All’ingrosso. A chi si occupa del
passaggio successivo. Di più non occorre che tu sappia.“
„E il mio TIR là fuori?“
„E’ già vuoto. Aperto con la seconda chiave.
„Truck-Stop?“
„E’ la stessa cosa.“
„Ma quelle erano macchine da scrivere spagnole.“
A Gorgonzola si trattava ancora di camicie, svizzere.
„Per la dogana. Non per me“, disse Ralle e sorrise. „Con due
milioni si possono fare molte cose. In cambio si può anche avere
qualche timbro, non ti pare? E un paio di marchi in più possono sempre
far comodo a chiunque. Anche a un impiegato della dogana.“
„E io non sapevo niente e ho trasportato la merce in giro per il paese.“
„Ammettilo“, disse Ralle, „non hai voluto saperlo. Sii contento di aver
incontrato me. Ora per lo meno sai con che cosa hai a che fare.“
„Perché mi racconti tutto questo?“ dissi. „Voglio dire…“
„Lascia perdere. Il trasporto di oggi è andato storto. Il Truck-Stop
non era pulito. Una retata, per caso, non aveva niente a che fare con
noi. Ma ne sono stato informato lo stesso. Quindi sei stato dirottato
direttamente qui. Era il rischio minore. Ho sentito il tuo nome. E ho
pensato: maledizione, ma questo lo conosci. E poi ho bisogno di
qualcuno che mi dia una mano. Sta diventando troppo. L’affare si
espande, o come si dice in questi casi. Da solo non riesco più a
stargli dietro.“
Respirai profondamente.
„Prenditi tempo“, disse Ralle. „Ci vuole un po’ prima che ci si sia
abituati alla verità. D’altra parte sai benissimo che non è la prima
volta che trasporti merce di contrabbando sul tuo TIR, o sbaglio? Quasi
nessuno dei camion che girano per il paese è pulito. Il tutto non
sarebbe più un affare. Solo che sono sempre gli altri a fare i soldi.“
Mi guardò per un attimo.
„Vecchio mio“, disse, „questa volta hai la possibilità, di guadagnarci anche tu un paio di marchi.“
„Davvero?“
„Sì, se vuoi.“
„Forse alla mia età non è neanche così male arrivare ad avere un po’ di soldi“, dissi, „Chissà quante cose ci si possono fare.“
„Wir sind die junge Garde – des Pro-le-ta-ri-aats“, cantò Ralle, senza che ci fosse alcun collegamento e senza battere ciglio.
Qualcosa da qualche parte nella mia testa si mise a lavorare. Conoscevo quella melodia.
„Zu Mantua in Ba-an-den – der treue Hofer war“, dissi poi. Avevo
trovato appena in tempo i due angoli impolverati del mio cervello in
cui erano state riposte le immagini ed i toni associati alla melodia.
Zu Mandua in Banden. Le marce degli Schützen. Avevo otto, dieci,
tredici anni. Impavidi erano, impavidi marciavano. Per impedire
l’arrivo dello straniero, per allettare gli stranieri. Gli stranieri
erano i turisti che piombavano come cavallette su una zona che gli
accoglieva sbavando a braccia aperte. Avevo sedici anni e gli Schützen
fedelissimi del Tirolo, con i loro motti semifascisti, con il loro
Andreas Hofer, un annacquatore di vino pronto all’estremo sacrificio,
le loro apparizioni accompagnate da ritmi sordi e il loro capo così
orgoglioso dei suoi stivali lucidati di fresco, mi stavano ormai
soltanto sulle palle.
Wir sind die junge Garde. Le marce di massa del 10 maggio a Berlino
est. Era l’85 se non l’84. Impavidi salutavano, con il pugno, la mano,
il pugno, impavidi marciavano. Sulla melodia di Zu Mantua in Banden
cantavano Wir sind die Junge Garde. Al ricordo degli Schützen mi venne
da vomitare. Poi mi accorsi: tutta Berlino est era un assembramento di
giovani donne della FDJ, l’organizzazione giovanile del partito,
giovani donne con delle camicie azzurre. Il resto non mi importava
quasi più, ero invecchiato. Gli anziani signori sulla tribuna, vicino
alle loro anziane mogli, i motti offensivamente stupidi composti in
serie in volumi commissionati a scrittori prezzolati. Pensai solo ai
cazzi miei. E alle giovani donne con le camicie azzurre.
„Bando alle ciance“, disse Ralle e si alzò, „inizia a ragionare in termini commerciali. Torno subito.“
(…)
Capitolo XXV
(…)
Una volta soltanto gli sbirri mi fecero il fiato sul collo.
Per pura curiosità una volta, mentre stavo passando in macchina a
Prenzlauer Berg davanti ai venditori vietnamiti, infilai la macchina
nel parcheggio più vicino e tornai indietro a piedi. Passai davanti ad
un vietnamita che faceva il palo all’angolo della strada. Un po’ più
avanti davanti ad un secondo appoggiato all’entrata di una casa che
occhieggiava oltre l’angolo. Sull’altro lato della strada c’era una
donna. Andai avanti e contai. Almeno cinque persone proteggevano i due
colleghi che stavano nei pressi di un ingresso con vicino a sé
sacchetti di plastica pieni di sigarette delle più varie marche, a
stecche.
Venivano chiamati venditori formica. Il nome aveva una sua ragione.
Ogni giorno si sparpagliavano per i quartieri ad est della città,
trascinavano per le strade i loro sacchetti, al mattino emergevano dal
nulla e scomparivano altrettanto improvvisamente di sera. Dozzine,
centinaia, giovani, vecchi, silenziosi e cortesi, una quantità pazzesca
di persone per quel paio di sigarette, formiche appunto.
Quando fui a mezzo metro dai due che erano vicino all’ingresso, uno sussurrò: „Sigarette?“
Mi fermai.
„Quanto costa una stecca?“ dissi.
„Trenta“, disse il più alto dei due.
„Dammene una“, dissi.
Poi non se ne fece nulla. Da non si sa dove arrivò un fischio. I due
presero in fretta i loro sacchetti e scomparvero altrettanto
velocemente dietro al portone. Uno dei due mi aveva trascinato con sé.
„Polizia“, disse.
Il suo collega spiava all’esterno attraverso una fessura.
„Problemi?“ dissi.
„A volte“, disse quello più alto, „se non si sta ben attenti. O se sono in borghese.“
„Gli sbirri vengono anche in borghese?“
Annuì e sorrise.
„Ma spesso sempre gli stessi. Si conoscono. Picchiano.“
„Come, picchiano?“
„Picchiano. Sono arrabbiati. A volte. Perché il lavoro non porta a
nulla. Se arrestano delle persone, poi ce ne sono subito delle altre.“
„Posso capirlo“, dissi e sorrisi anch’io.
Non era davvero una prospettiva edificante. E niente di gratificante
per questi aspiranti rambo. Spazzare vietnamiti nelle strade di
Berlino. E di continuo ne spuntavano di nuovi oppure i soliti. Chi
poteva saperlo. Per noi che non ce ne intendiamo sembravano tutti
simili l’uno all’altro.
Il più alto disse qualcosa in vietnamita al suo collega. Quello scosse il capo e continuò a guardare attraverso la fessura.
„Ancora momento“, disse il vietnamita.
Annuii soltanto. Avevo tutto il tempo che volevo.
„E cosa ci guadagnate?“ dissi. „Quanto?“
„Tre marchi alla stecca“, disse il vietnamita.
„Tutti insieme?“
„Sì.“
Allora dovevano lavorare molto sodo perché ciascuno ottenesse il suo
paio di marchi. Soldi guadagnati duramente, quei tre marchi, a stare in
piedi tutto il giorni in attesa.
Tschenett, pensai, così è. Tu fai la grana con poco, senza sporcarti le
mani, vai un po’ in giro nei paraggi, telefoni tre volte al giorno. E i
colleghi della vendita al dettaglio si rompono il culo per un tozzo di
pane. Tschenett, Tschenett, come già detto, sembra veramente che tu
stia pian piano diventando adulto e anche stronzo.
Dopo che il collega aveva fischiato il cessato allarme, per farmi
sentire ancora peggio, diedi al vietnamita un deca in più per la stecca
e lasciai perfino che mi ringraziasse.
„A posto così“, dissi, „sono per così dire soldi tuoi.“
Il giorno dopo Ralle mi aveva ordinato di tornare a Herzsprung, e io gli avevo parlato dei vietnamiti.
„Quelli?“ disse Ralle. „I viets sono contenti. Fanno anche bene ad esserlo. Diventi di nuovo sentimentale, Tschenett?“
„Mah sì, mah sì“, dissi.
„Stai attento“, disse Ralle, „sai perché non amo i sentimentali? Perché non sanno niente. Così è.“
Aveva fatto centro.
„Prendi i viets“, disse Ralle dopo aver preso fiato profondamente.
„Sono stati portati qui dai loro paesi socialisti dalla fraterna DDR,
perché le servivano un paio di molochi. Oltretutto il Vietnam aveva
ancora dei debiti dalla guerra. Vedi, all’est si chiamavano lavoratori
a contratto. E nell’ovest, mio caro, se non erro, immigrati. Ora dimmi,
quale è il termine più meschino. Fin qui tutto bene. Poi è arrivato il
novembre ottantanove e tutto quello che ne è conseguito e poco dopo i
lavoratori a contratto vietnamiti erano disoccupati. Come anche un paio
di altri. E quindi ci si voleva liberare di loro. E all’improvviso sono
diventati mezzi illegali. Abitano da qualche parte fuori al limite
della città in ostelli, ammassati uno sull’altro come galline in
batteria e si girano i pollici, finché non verranno rispediti in
Vietnam. Confrontato con il modo con cui si taglia corto con i
lavoratori immigrati altrove, questo trattamento è quasi umano. Visti
da questo punto di vista i tre marchi a stecca sono soldi guadagnati
bene per i viets. E tu vuoi togliere loro anche questo.“
„Quando mai“, dissi. „Di più dovrebbero prendere, semmai.“
„E tu saresti soddisfatto con metà dei tuoi soldi? Questo non lo credi
nemmeno tu. Il sistema“, disse Ralle, „devi capire il sistema.“
„L’ho già capito“, dissi, „ma che mi piaccia è un'altra cosa.“
„Allora cercati il divertimento altrove.“
E con questo per Ralle il discorso era chiuso. E in effetti anche per me.
(…)
Capitolo XXXVII
Ora tocca a te Tschenett, essere coraggioso. Se ce l’hai fatta fin qui,
ce la farai anche per un altro metro e due scalini. Oltretutto quei due
hanno urgente bisogno di qualcosa da mangiare e di un letto caldo.
Ero fermo nell’oscurità davanti alla casa, vicino a me la padroncina
tremante, dietro di me i due vietnamiti infreddoliti che molto
probabilmente si stavano chiedendo che problema c’era di nuovo. Alla
vista delle finestre illuminate si erano sicuramente già sentiti a casa.
Il torrente di Fleres alle mie spalle sembrava diventare sempre più
rumoroso. Così rumoroso che non vidi più nessuna possibilità di trovare
le poche parole con cui intendevo esordire.
Muoviti, Tschenett. Che almeno quei due possano rifocillarsi. Questo non te lo negherà.
La porta si aprì. Più che una sagoma non potei vedere controluce. Ma era lei.
„Dai entra“, disse Berta. „Cosa fai stare questa gente fuori al freddo. Non hai ancora imparato come ci si comporta?“
Note
Pag 45 Andare a passeggio a fine
marzo: Effettivamente vi furono tentativi di passare illegalmente la
frontiera per i quali i pretesti furono ancora più assurdi.
„Nella notte tra domenica e lunedì (novembre 1963) su una strada
isolata all’altitudine di circa 2000 metri presso il passo Gala
in valle Aurina, non lontano dalla frontiera austriaca furono trovati e
arrestati da una pattuglia il 23enne Josef Oberreiter di Luttago e la
38enne Rosa Ebner di Molini di Tures. Josef Oberreiter, che era
ricercato dalla polizia, e Rosa Ebner stavano viaggiando con una
motocicletta e dichiararono al momento del loro arresto che erano in
cerca di funghi. Questa spiegazione era però poco credibile visto che
nella zona interessata era nevicato. Durante il tragitto verso Brunico
la macchina della pattuglia slittò sulla neve e finì fuori strada.
Quando il conducente si fermò per far ripartire la macchina, Josef
Oberreiter sfruttò l’occasione favorevole e scappò. Nonostante le forze
dell’ordine si fossero messe subito sulle sue tracce, non riuscirono a
catturarlo. Trovarono soltanto una pistola che probabilmente Oberreiter
portava con sé e che aveva gettato quando aveva visto la pattuglia. La
38enne Rosa Ebner è la sorella di quel Franz Ebner che si trovava nella
passata estate del 1963 insieme con Josef Laner nella caserma dei
Carabinieri di Campo Tures per essere interrogati quando esplose
del tritolo messo dai terroristi nel camino e che quasi distrusse
l’intera caserma. Ebner e Laner furono feriti. Dopo un po’ di tempo
furono rilasciati.“ (Dai quotidiani del novembre 1963). Cfr. anche il
romanzo di Kurt Lanthaler „Il Carabiniere“ in uscita non prima del 2001.
Pag. 46 Groenlandia: Vedi anche i primi 4 capitoli
del romanzo “Azzurro” dell’autore in uscita a settembre 1998 presso
l’editore Haymon.
Pag. 48 Herzsprung: „Herzsprung, CAP 1931, collegio
di Wittstock (Dossa), 320 abitanti. Proposte di itinerari per
passeggiate: Herzsprung – Kattenstiegsee – Kattenstiegmühle (3km).
Herzsprung – Königsberg – Königsberger See (4km). Herzsprung –
Fretzdorfer Heide – Bauhof – Scharfenberg (104 km). Per eventuali
richieste e informazioni rivolgersi a: Consiglio del Comune di
Herzsprung, tel. 207.“ In: Der Grüne Ring. Erholungsgebiete in und um
Berlin. Verlag Tribüne Berlin, 1975.
Pag. 50 Jottweedee (berlinese): Significa qualcosa
come „In culo al mondo“, cioè „Janz weit draußen“(molto fuori).
Pag 51 Telespargel (berlinese): Il
berlinese ha una predilezione per la gastronomia quando dà dei
soprannomi alle opere architettoniche. Con Telespargel (asparago
televisivo) si intende la torre televisiva, con Schwangere Auster
(ostrica incinta) il palazzo dei congressi, con Hungerkralle (unghia
della fame) il monumento sulla piazza del ponte aereo per ovviare
appunto alla stessa, con Kohlroulade (involtino di cavolo) il Reichstag
impacchettato da Christo. La piazza del ponte aereo si trova vicino
all’aeroporto di Tempelhof sito nel centro della città, dove durante la
blockade di Berlino atterravano gli aerei USA. Questo ponte aereo
rifornì dei necessari viveri, medicinali, carburante ecc. la
popolazione di Berlino ovest permettendone la sopravvivenza.
Pag. 51 Vopos: abbreviazione di Volkspolizei (polizia
del popolo) che era una delle forze di polizia della DDR.
Pag. 52 Rowdytum: Abbiamo consultato una
pubblicazione del „Ministero della Bundesrepublik per questione di
interesse tedesco comune“ con il titolo „SBZ von A bis Z. Ein
Taschen-und Naschlagebuch über die Sowjetische Besatzungszone
Deutschlands“, Deutscher Bundes-Verlag, Bonn 1966. („ZOS dalla A alla
Z. Un libro tascabile e di consultazione sulla Zona di Occupazione
Sovietica in Germania" , Edizione Deutscher Bundes-Verlag, Bonn 1966):
Rowdytum: gergo di partito per disordine causato da teppisti. Il
concetto di teppista viene rifiutato. Le forme di apparizione ad esso
collegate furono per molto tempo rigettate. Alla fine furono indicati
come motivi per la scarsa attività degli adolescenti nella vita
pubblica e per il „purtroppo spesso osservato fenomeno del R“ il
mancato buon esempio degli adulti e il fallimento della FDJ (Freie
Deutsche Jugend – Libera Gioventù Tedesca). (DLZ del 19.1.1957).
L’accusa di R. fu rivolta in particolare agli adolescenti che
manifestavano in modo burrascoso il loro entusiasmo per la musica Beat.
Numerosi processi per R. finirono con dure condanne.“
Pag. 52 Ahrenshoop: Quando l’autore nell’estate 1990
giunse ad Ahrenshoop, l’albergo per le ferie dei collaboratori del
ministero per la sicurezza dello stato era diventato un hotel, in cui,
cosa molto rara, si perdevano alcuni banchieri e assicuratori che erano
gli unici ospiti. Il portiere di una volta era stato promosso a
gestore. E’ l’unico gestore di un hotel contro cui l’autore ha giocato
alla discesa di sci su un videogame della marca Robotron. Per la
cronaca sportiva: dopo sette giorni il gestore aveva vinto 22 su 24
partite. L’accesso all’hotel era allora la più popolata zona di caccia
del cinghiale conosciuta dall’autore. L’hotel era dotato di una
biblioteca ben assortita, che era dedicata ad un famoso esploratore del
socialismo.
Pag. 52 Breuler: Nella Germania dell’est pollo alla griglia.
Pag. 52 Karo: Marca di sigarette della DDR di una
volta che sono sopravvissute fino ad ora; senza filtro, crepitanti,
sincere, dure.
Pag. 53 Immaginati un container pieno di sigarette:
nell’arco del 1994 nella BRD furono sequestrati 725 milioni di
sigarette. Impiegati della Soko (Commissione speciale della
Polizia) „fumo blu“ stimano che al massimo viene scoperto tra il
cinque e il dieci per cento delle sigarette di contrabbando. Dei 25
pfennig che una sigaretta costa alla vendita legale lo stato incassa 14
pfennig come tassa sul tabacco, 4 pfennig di I.V.A. e 3 pfennig di
dogana. Facciamo qualche breve calcolo e arriviamo al seguente
risultato: l’industria del contrabbando di sigarette nel 1994 nella
sola BRD ha incassato un buon miliardo e mezzo di marchi. Da cui
naturalmente si devono ancora detrarre i costi: trasporto, soldi per
corrompere, salari, previdenza per gli anziani. Interpretato in altro
modo dal calcolo risulta quanto segue: una stecca di sigarette di
contrabbando costa al produttore 7 marchi, ai mediatori del mercato
nero da 14 a 16, ai venditori formica da 27 a 32, all’acquirente da 32
a 35 marchi.
Solo a Berlino, uno dei centri del contrabbando e dello smercio di
sigarette di contrabbando, nel 1994 furono sequestrati 85 milioni di
sigarette, con un valore commerciale di 21,4 milioni di marchi. Il
commercio illegale di un bene economico di queste proporzioni è
possibile solo se a tutti livelli della produzione, della distribuzione
e dell’amministrazione ci sono dei collaboratori. Esempio di via
commerciale di una sigaretta di contrabbando: produzione in USA o Gran
Bretagna; ditta commerciale svizzera ne commissiona a container; le
sigarette vengono trasportate ufficialmente su TIR via Rotterdam e
Lisbona verso la Lituania; durante il „transito“ per la Germania la
merce „sparisce“, impiegati della dogana procurano i timbri che
apparentemente attestano l’uscita dalla Germania; nei dintorni di
Berlino la merce viene caricata su furgoni; i venditori formica si
occupano della vendita al dettaglio.
A proposito di furgoni: il catalogo della casa editrice, che annunciava
il titolo e il contenuto del presente romanzo, era già stato stampato
quando alla rubrica „Polizeireport“ (rapporti della polizia) della
„Berliner Zeitung“ si è trovato il seguente comunicato: „Controllando
un furgone nei pressi di Herzsprung (Ostprignitz-Ruppin) giovedì la
polizia ha trovato 500.000 sigarette non sdoganate. Altre 500.000
sigarette sono state scoperte dalla polizia venerdì su un furgone in un
parcheggio sulla A24 nei pressi di Herzsprung.
E’ chiaro che i produttori di sigarette e le ditte di spedizione hanno
a che fare con una specie di „impresa alternativa“, già da anni in
imprese svizzere si parla di „Export II“ quando si parla del
contrabbando.
Nel dicembre 1991 il governo italiano ne ebbe abbastanza. Non era più
disposto a credere che la ditta Philipp Morris spedisse milioni di
sigarette in Albania senza sapere che lì c’erano al massimo due dozzine
di acquirenti in grado di pagarle. Naturalmente le sigarette
approdavano in Italia via motoscafo. Il governo proibì, per così dire
come avvertimento, ai produttori, per un mese la vendita ufficiale,
legale delle sigarette prodotte dalla Philipp Morris. Questa vendette
ancora di più al mercato nero.
Oltretutto i produttori guadagnano in determinate condizioni tre
volte tanto. Una volta con la vendita al mercato nero. Nel caso in cui
le sigarette vengano sequestrate lo stato tedesco si affretta a
toglierle dalla circolazione. Anni fa le merci sequestrate venivano
messe in commercio a vantaggio dallo stato stesso. Ma le lobby del
tabacco, con la motivazione che depositate nei capannoni della
dogana le sigarette ci rimettessero in qualità, e che poi era troppo
costoso incollare successivamente il sigillo delle tasse sui pacchetti,
hanno ottenuto che la merce di contrabbando venisse distrutta; il che
significa che merce ormai già pagata viene tolta dal mercato e le ditte
di sigarette possono iniziare il secondo giro di vendite. La Philipp
Morris ci guadagna anche dalla distruzione delle proprie sigarette:
siccome bruciarle alla lunga diventava troppo inquinante, si fa del
kompost e delle sigarette viene fatta terra per fiori. Philipp Morris
ha istituito con l’aiuto della ditta di cioccolatini Jakob Suchard a
Brandeburgo un impianto di compostaggio dei rifiuti e ha offerto alla
dogana tedesca di trasformare e vendere le sigarette di propria
produzione già vendute e pagate come terra per fiori e concime. La
Bundesrepublik Deutschland fornisce a tale scopo all’impresa Philipp
Morris la materia prima gratis.
Pag. 57 Wir sind die junge Garde des Proletariats:
Entrambe le canzoni si cantano con la stessa melodia. Segue confronto
critico tra i testi delle prime tre strofe:
„Incontro all’aurora compagni di battaglie tutti!/ Presto vincerete su
tutti i fronti/ presto fuggirà il muro degli avversari!/ Avanti con
forza e tenete il passo!/ Gioventù dei lavoratori? Vuoi venire con
noi?/ Siamo la giovane guardia/ del proletariato. // L’abbiamo
sperimentato, il lato violento del lavoro/ in tristi anni infantili/ e
presto siamo diventati vecchi./ Ha tintinnato al nostro piede,/ la
catena che diviene solo più pesante./ Siamo la giovane guardia/del
proletariato. // Vi tendiamo le mani, compagni tutti, per l’alleanza./
Non ci sia fine alla lotta,/ finché tutto intorno/ il libero popolo del
lavoro non abbia vinto/ e ogni nemico sia prostrato./ Avanti, o giovane
guardia/del proletariato.“ (testo di H.A.Eildermann, 1907; melodia:
popolare.)
A Mantova nelle schiere, c’era il fedele Hofer/ a Mantova alla morte lo
condusse la schiera nemica./ Sanguinava il cuore fraterno/ tutta la
Germania , nell’onta e nel dolore./ Con lui la sua terra, il Tirolo/
con lui la sua terra, il Tirolo. // Con le mani sulla schiena andò
Andreas Hofer/ con calmi forti passi: la morte poco gli sembrava/ la
morte che lui già qualche volta/ dall’Iselberg aveva inviata in valle./
Nella santa terra del Tirolo/nella santa terra del Tirolo. // Ma quando
dalle sbarre della prigione nella forte Mantova/vide tendere le braccia
dei fedeli compagni d’armi/ grido forte: Dio sia con voi/ con il
tradito regno tedesco/e con la terra del Tirolo /e con la terra del
Tirolo. (Testo: Julius Mosen, 1831; melodia: secondo un canto popolare
da Leopold Knebelsberger; oggi inno tirolese.)
Pag. 61 Prenzlauer Berg: quartiere di Berlino, ex
est, 165.000 abitanti, una superficie di 11 chilometri quadri, viene
definito „la più grande area di bonifica d’Europa“. Il che, secondo
l’autore che ci ha vissuto per un po’ di tempo, è un’esagerazione
tipica per un tedesco, che dell’Europa ha visto solo Rimini, la Costa
Brava o le cartoline che mostrano le guardie della regina
d’Inghilterra. Si tratta di uno dei pochi quartieri „tipici“ di Berlino
con casermoni in affitto della seconda metà del secolo scorso. Verso il
1866 qui c’erano soltanto alcune centinaia di abitanti, mulini a vento,
alcune fabbriche di birra, solo dal 1873 un castello d’acqua. In 40
anni diventò uno dei più densamente popolati quartieri della città,
negli anni Trenta Prenzlauer Berg aveva oltre 350.000 abitanti.
(...)
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