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Stand 17.03.2011



Napule


Romanzo.  Haymon Verlag, 1995. Diogenes Taschenbuch, 2000

Traduzione di Maria Luce Del Vecchio







Capitolo I

Partono ‘e bastimente
pe’ terre assaje luntane*

(* Quanto in seguito è riportato in corsivo
sta in italiano anche nella versione originale del romanzo.)

I mari del mondo sono diventati da tempo troppo lontani per Hefaistos. Allora sposta a est delle Colonne d’Ercole i suoi giri sempre uguali, che logorano le valvole, una sagoma molto sottile, come delle linee tratteggiate casualmente, tra porti  malandati, un andirivieni, un salire e scendere, Sfaks, Bari, Saida, Patrasso, Haifa, Smirne, Beirut, Cagliari, Vassiliko, Trieste, Ajaccio, Salonicco, Istanbul, Binghasi, Igoumenitsa, Ancona, Ismir, Dubrovnik, Tarabus, Famagusta, Rijeka, Mersin, Napoli, un porto dopo l’altro e, alla lunga, si assomigliano sempre di più, niente altro che un groviglio caotico di documenti doganali, lingue, gru, tempi di riposo, impenetrabili capitanerie di porto e incalcolabili mettersi sull’attenti, un caricare e scaricare, un mettere a posto e uno smistamento di merci sempre nuove, rottami e cerchioni, patate, rotoli di cavo, bidoni di formaggio, similpelle, materassini, cerchioni leggeri, mandarini, uomini, macchine e, chi avanza una tonnellata di grano e chi invece ne ha una in meno di zucchero, chiama Hefasitos e lei segue il richiamo, percorrendo un groviglio di rotte, in qualche luogo e, laddove manca il riso e le rose appassiscono, i commercianti aspettano in porto e la cercano con gli occhi, l’affare da qualche parte è già sul fax e il guadagno è in mano, la merce deve ancora passare al cliente e l’acqua passare sotto la chiglia, si gesticola su questo mercantile, quasi nessuno conosce più di due parole dell’altro, una per la prua e una per la poppa, per la vita di tutti i giorni è sufficiente, ci si può quindi insultare amichevolmente e lanciare bestemmie, che, poi, come palloni di gomma rimbalzano sul ponte, da qui a lì, raramente, difficile che si possa capire, o addirittura prevedere, la loro direzione e così le maledizioni si aggirano per la nave, come Hefaistos per il Mediterraneo e, ciò che sembra senza scopo e confuso, segue un piano ben architettato, scritto lontano sulla terra, ogni giorno nuovo, e, un silenzioso richiamo raggiunge Hefaistos e lei fa ritorno.





Capitolo II

Di solito, una sacca da marinaio garantisce le poche cose di cui un uomo in qualche modo sensato ha bisogno per vivere: un pugno di sicurezza, due paia di calzini asciutti, una piccola dimora e così tanta fortuna, da non dover più parlare di sfortuna. Di solito il mio zaino dava affidamento. E allora, lo mettevo sulle spalle, alzavo un po’ la spalla destra, in modo così da sistemarmelo sulla schiena, facevo un cenno all’egiziano, abbottonavo la giacca sul petto e scendevo da bordo.

Sirene, auto, freni, porte, grida. Ed io mi trovo sdraiato sul pavimento, a pancia in giù, la mia sacca da marinaio per metà aperta e per metà vicino a me, una o due scarpe sulla schiena, la neve in bocca.
E così nevica a Napoli.
Fiocchi sottili, leggeri. Girano vorticosamente nel vento di terra verso l’alto e verso il basso, un gioco come un altro e ciononostante io penso: non c’è spazio. Così come per te stesso.
Sputo, cerco di respirare e di capire. Davanti a me, nello spazio ridotto tra la lanugine rarefatta e bianca dell’asfalto e la lamiera blu dell’automobile, con le lettere rosse ARABI, si muovono stivali e scarpe da ginnastica, dopo l’ottavo paio ho smesso di contarli; quando poi sposto un po’ verso l’alto la testa, vedo le mitragliatrici e i cappucci neri.
    Poi uno stivale preme la mia testa di nuovo contro la neve.
“Va bene”, dico,…”ho capito”.
“E stai fermo!” urla un tizio. “Non ti muovere”.
“Va bene”, dico “faccio il bravo”.
E nemmeno mi risulta difficile.
Come se una curiosità così piccola fosse già un peccato mortale. Come se uno come me potesse vedere qualcosa, che poi un giorno potrà risultare importante.
E a poco a poco mi sento bagnato ed ho freddo.
Da sopra la nave mercantile provengono delle grida, bestemmie in più lingue, Un nuovo paio di scarpe davanti al mio naso. Il destro continua a girarsi verso il lato esterno. Un uomo nervoso. E ad alta voce:
Avanti! In marcia.”
Chiaro accento da italiano del Nord. Pianura Padana, polenta, perfidia, tono tipico da Carabiniere.
“E fissatelo, questo qui.”
Devo quindi essere pure ammanettato. E sento già dei dolori alle braccia e uno scatto, mi trafigge la carne, mi opprime la schiena e toglie il respiro.
Avevo appena finito di pensare: Fa pure. Ho tempo. E già ne ho abbastanza. Mi rimetto quindi a contare i fiocchi di neve.

Mi ero messo in viaggio per Napoli perché era arrivato il momento. Perché avevo trovato questo mercantile. Perché l’ avevo promesso ad un vecchio amico. Perché un giorno ne avevo abbastanza di osservare dalla finestra della mia dimora, il porto coperto di neve di Salonicco.
Non ci avevo quindi pensato a lungo, quando il padrone di casa del Kafenion, a margine del porto, mi aveva chiamato a telefono, un ciottolo contro la finestra, come sempre, centro al primo lancio, “eh Tséne, vieni giù, éla kato!”
“Così ci vediamo, sono contento.”
E domandando qua e là. “Quando parte una nave per Napoli?”
“Ne partirà una. Una partirà.”
Mi ero seduto e avevo ordinato un caffè.
E tre giorni dopo ero finito dall’egiziano, che con il suo mercantile doveva fare scalo prima al Pireo e poi a Napoli.
E, siccome Jorgos, l'oste del Kafenion Majestic era amico dell’egiziano e mi aveva avuto per buoni quattro anni come vicino, ci eravamo subito accordati.
“Nessun problema. Fatti solo trovare domani alle sei. Beviamo un’altra volta il nostro metrio e poi partiamo.”
Il pomeriggio stesso avevo già pronta la mia sacca da marinaio.

Quando sbarcammo a Salonicco, continuava a nevicava. Su tutta Atene una tormenta di neve grigio scuro, il canale di Messina gorgogliava. Questo gennaio del 2002, non prometteva nulla di buono per il Mediterraneo. Ciononostante avevo pensato che il viaggio fosse un’idea ragionevole.

Nel frattempo ho iniziato a pensarla in modo completamente diverso. Le braccia mi sono diventate ormai livide e se ne stanno come catene lungo il corpo, gli stivali continuano a passarmi davanti marciando,  arrivano poi tre cani. L’ultimo, un meticcio nero-grigio con parti visibili di uno schnauzer enorme, mi si avvicina lentamente e mi annusa il viso.
Chiudo gli occhi e aspetto. Rimango sdraiato immobile. Quando alla fine sono di nuovo solo, senza il piede contro la mia schiena, un breve fischio mi aveva liberato, prendo profondamente aria, così come me lo consente la mia gabbia toracica a lungo pressata e cerco di dire “Ma porca misera”.
Adesso non bisogna continuare a maledire anche la propria sfortuna, troppo dipende da lei, se non addirittura tutta la nostra vita, e una sfortuna raramente viene da sola e allora, qualcuno dal nulla mi urla: ”Tschenett”.
Questo, penso, non può davvero essere. Chi è che mi conosce già. E qui poi.
“Fatelo alzare. E’ un mio confidente.”
No, penso e scuoto silenziosamente la testa, nei limiti del possibile, questo no, amico mio. Da te non mi faccio chiamare confidente della polizia. Da te no.
Così, vengo trascinato, un Carabiniere baffuto, grosso quanto largo, mi mette in piedi, tremo e cerco di girare le mie mani per cercare di non farmi lacerare del tutto i tendini dalle manette, guardo il pavimento e dico: “Porta almeno il numero quarantasette.”
Adesso saprò se non altro di che cosa sono accusato.
“Zitto”, dice il Carabiniere.
Ed io rimango zitto. Guardo per terra.
Stiamo in ballo ed io non voglio essere un guastafeste. Oppure si è troppo arrendevoli perché sono diventato vecchio?
Forse, penso, ha però anche smesso di nevicare. Almeno per quel tanto che riesco a vedere io. Forse c’è ancora un mondo dietro queste scarpe, dietro questo porto.
E poi sento, come il nuovo arrivato mostra al Carabiniere  il suo documento d’identità, “Polizia di Stato, ecco qua”, dice il suo grado e il suo nome e, come lo invita gentilmente, con un leggero tono di comando, tra l’altro, a togliermi le manette. Perché ora mi vuole portare con sé, me, il suo confidente.
Mi giro in modo tale che il Carabiniere non riesce ad arrivare alle manette, lui vuole verso sinistra, io mi rigiro verso destra, lui si gira a destra, io a sinistra.
“No”, dico, “Non sono il suo confidente, non lo conosco affatto, signor Carabiniere. Ha visto bene il suo documento? Con tutti i farabutti che ci sono in giro?"
Non mi prendi così facilmente. No, se devo essere il tuo confidente.
Il Carabiniere è ora perplesso, guarda il poliziotto in modo interrogativo, bestemmia a bassa voce e  giocherella con le manette aperte.
“Andiamo”, dice il poliziotto con una voce, che non lascia più margine di manovra, “andiamo”, afferra le chiavi trascinandosi dietro me e la mia sacca da marinaio.





Capitolo III

Una pasta sottile, morbida, con il bordo croccante. Dorata con parti bruciacchiate, mozzarella, pomodori, un pò d’olio d’oliva, aromatica, con sopra le foglie di basilico, niente altro che il mondo intero in un piatto, fumante, eccezionalmente insieme in un’ armonia a tutto tondo.
“Penso”, dico, “le gelate delle ultime settimane e la siccità degli ultimi mesi hanno svuotato il mercato della verdura italiano, o almeno lo hanno reso così inaccessibile a noi, come soltanto lo sono le borse dei diamanti di Amsterdam.”
“Per questo siamo qui”, dice Totò, “Luccio sa, come si fa.”
“Non è che i pomodori mi vengono da quelle vasche piene di soluzioni nutritive delle grigie serre olandesi….”
“Tschenett, non metterti nei guai e non farti sentire dal padrone: ti manderebbe subito all’inferno. Di sua mano. Non godresti neanche di un killer su commissione. E ciò che significa, lo sai: Porcheria.”
“Allora”, dice Ciro, sollevando il bicchiere, “a noi. Tutt’ ’o lassato è perduto. Ogni lasciata è persa.”
“Bel proverbio”, dico.
“Ci si può”, dice Ciro, “trascorre la propria vita con questi proverbi. Si può a volte perfino spiegarla con essi. In napoletano, nella lingua di questa città, si riesce, se è il caso, a descrivere il mondo. Napule, come diciamo noi, è la nostra città. L’altra, quest’altra Napoli è un prodotto di scarto per il viaggiatore.”
E allora brindiamo a noi. Un aglianico dei dintorni. Scuro, terreno, saporito.

Non più di cinque minuti, era durato il nostro viaggio in Alfa Romeo, al cui volante stava un uomo anziano che conosce bene le relazioni napoletane, presentatomi da Totò come Ciro. Ciro mi fece cenno con la testa, con fare non scortese.
“Allora…”, dico, “un collega?”
“Tuo sicuramente no. Non è un marinaio a terra, né un camionista inattivo. Un mezzo fallito.”
“Sbirro?”
“Beh sì, uno come me. Mi hanno bandito nel lontano Brennero siberiano…”
“E so anche come mai”. Un investigatore totalmente inaffidabile con un debole irrefrenabile per la cannabis. Che inoltre vuole sempre avere ragione, caparbio e testardo…”
“… e l’amico Ciro ha ricevuto dal Capo della Polizia un ufficio al centro di Napoli, in cui, a parte i topi, non c’è anima viva e, dove, a parte appuntire le matite, non c’è quasi nulla da fare.”
“E dove si va ora?”, dico. “A fare un in interrogatorio di terzo grado?"
“Sì, dice Totò”, “è proprio l’ora per Luccio.”
“E facimmo e pizze!”
Ciro sembrava aver voglia di pizza. E la capacità di entusiasmarsi per il mangiare.

Sono anch’io entusiasta. La margherita di Luccio è una meraviglia, nella sua assoluta semplicità, fatta solo con farina, acqua, lievito, olio, sale e  aromi vari: mi sento già a casa. E’ così semplice. Dovunque. Ma non sempre. Ho già appurato, che determinate acque non si addicono affatto alla preparazione della pasta per la pizza, il perché  non lo so, nessuno è riuscito a spiegarmelo, nemmeno con un accenno, ipotesi, ipotesi, sì. Ma con le ipotesi non si fa la pasta per pizza. Con il lievito è più semplice. I lieviti funzionano o non funzionano. Naturalmente non ci se ne accorge (io no). Eppure è così. Parliamo del quinto principio della termodinamica. I lieviti e le loro gerarchie. Lieviti e ferri di cavallo come portafortuna. Lieviti forti, di categoria più elevata. Dell’intero sistema appunto. Sarebbe tutto ancora da scoprire. In questa vita. E nella prossima.

“Bene”, dice Totò e si pulisce le labbra dal vino, prima con la sinistra e poi con la destra, lentamente con l’ampio dorso della mano, sulla sinistra una striscia lilla, la destra pulisce per molto a vuoto e, come io lo guardo, penso: in questi anni si è fatto vecchio ed io ancora di più. Separati è più veloce che insieme?
“Allora…”, dice Totò.
“Non cercare di scusarti”, dico. “Ciro, mi ha pubblicamente fatto passare per il suo confidente. Più che pubblicamente. Davanti a un Carabiniere.”
Ciro capisce al volo.
“Non per davvero. Accide cchiù a lengua ca a spata. Uccidono più le parole che la spada.”
”Che volete”, dice Totò. “Eravate presenti. I signori dell’altro ministero hanno organizzato una retata. O trovavano su questa nave mercantile venti cinesi mezzi affamati, due bidoni di coca, o il fratello gemello di Bin Laden: ci saranno delle noie. Il modo in cui si sono schierati, fa capire che sapevano il fatto loro. E il Tschenett, in questo guaio, di nuovo tra i piedi.”
“Per me fa lo stesso.”
“Per te forse, amico, lo so, Ma, mentre  io sto nel bar del tribunale davanti al mio caffè e penso, che devo ancora telefonare alla Capitaneria di Porto per appurare quando hai intenzioni di approdare con la tua nave mercantile, te il Signore dei Mari del mondo, sento dell’Hefaistos e della retata  e vedo i due Carabinieri, dentro di me penso: sono cinque anni che non vedi Tschenett e tutto era tranquillo e andava benissimo, lui sta in Grecia e che succede? La terra trema, i boschi bruciano, le città soffocano sotto la neve, ma che significa, la Grecia è lontana e in qualche modo la spunteranno con lui, così come ho fatto io per tutti quegli anni, è questo che penso tra me e me, e sento questo e così penso e dimmelo tu, Ciro, perché continuo ad essere  così stupido e perché mia madre non mi ha soffocato subito quando, la notte in cui sono nato, la parola Tschenett aleggiò come un fuoco minaccioso sul Mare Tirreno e le vecchie donne del paese si riunirono in piazza di corsa e digrignando i denti, mentre gli uomini afferrarono i loro fucili, perché sono così stupido e mi trovo a pensare un’altra volta: tiralo fuori da lì. Salvalo da se stesso, ancora una volta e di nuovo forse inutilmente, sottrailo al suo ben meritato destino, due settimane di custodia cautelare ed un giudice sordo, che da tempo ha smesso di strappare dal sonno il difensore d’ufficio, complica soltanto le cose, e le cose già non sono facili fuori nel mondo, come devono poi essere in tribunale, dove tutto ha il suo corso con le toghe pesanti e per Tschenett il corso consiste nella dannazione eterna delle tenebrae aeternae, come mai allora telefoni a Ciro e gli chiedi gentilmente di andare a prendere con te un amico al porto, portandoti un’auto di servizio civile e quindi: Formulario numero 204 riga B, formulario 3 riga 21A e che altro ancora, ti fai dire dalla Capitaneria di Porto, dove sarebbe ormeggiata questa nave della sfortuna, scendi dall’auto, subito vieni raggiunto dall’orda divenuta furiosa del Ministero della Difesa, non è la prima volta che un poliziotto venga ucciso calpestato da un Carabiniere, tranquillamente senza troppe conseguenze, vedi uno che giace schiacciato come  una passera di mare nonostante la stazza che è andato accumulando nel corso degli anni, cadaverico in viso , bianco nella neve grigia, legato, impacchettato e perso, bene, pensi, e vedi il Carabiniere che si erge su di lui e vedi il suo sguardo interrogativo e la bocca aperta senza parole, bene, deve allora ora funzionare lo stratagemma diciassette e al primo tentativo, e quindi fuori il documento, che non autorizza a niente altro che ad un pasto scontato alla mensa del congresso e, avanti con decisione e, prima ancora che il Carabiniere possa riflettere,  pensi e il nodo viene al pettine, inventi la parola magica. Confidente. E adesso dimmi: Che altro? Dimmelo tu.”
“Hai imparato a parlare in modo sciolto, Totò.”
“Non ho chiesto a te, Tschenett. Ciro?”
“Insomma.”
Ciro non sembra essere sicuro. Guarda dubbioso tra Totò e me da una parte all’altra.
“Cari amici”, dice Totò e fissa il bicchiere di vino, lui che in genere è soprattutto un gran bevitore, uno che cerca la sfida, per meglio dire, “Cari amici, ora che siamo qui fortunatamente riuniti…”
Mi prendo la testa tra le mani. Ciro non fa una mossa. Totò trascina indietro rumorosamente la sua sedia, si alza in piedi puntando le mani, come se avesse qualcosa sulle spalle, solleva in aria il suo bicchiere. “Amici…”
E poi gli scappa una risata, mi abbraccia e dice: “E’ bello che tu sia qui.”


“Raccontami, quello che fai a Napoli, Totò. Di me lo so. Ho un appuntamento con te.”
“Molto onorato”, dice Totò.
“Bene."
“8th International Conference of the European Polices eccetera...”
“Come hai detto scusa?”
“Ottava Conferenza Internazionale delle Autorità di Sicurezza sulla Criminalità oltre Frontiera. Sviluppi e Problemi Futuri alla Luce dei Dati più Recentii”,
“E così tu sei…
“...Invitato come esperto. Per così dire”, dice Totò
“Non dirai veramente”
“Dico davvero. Ma non è stata una mia idea. Ordini dall’alto. Messaggio d’ufficio del comando di polizia Distretto Nordest, divisione Relazioni esterne e ricerche scientifiche."
“E  non  ti opponi?”
“A volte, penso che in tempi come questi non si dovrebbe più pensare”
“E’ vero, dice Ciro, ridendo tra sé e sé. “E vero."
“Anche tu?”
Ciro fa soltanto un cenno con la testa. Un uomo calmo con il senso dell’umorismo. Non è una brutta combinazione.
“Come si è pensato ad una cosa simile?” Voglio andarci più a fondo. Adesso voglio sentire di più della rapidissima ascesa da cometa di Totò nell’aria rarefatta dei simposi di polizia.
“E’ semplice”, dice Totò
“Molto semplice”, dice Ciro.
I due giocano a pingpong. C’è da chiedersi, per inciso, come e quando lo abbiano praticato. Me lo annoto.
“Questa cosa qui”, dice Totò, “si chiama simposio, conferenza, congresso. Incontro cabalistico, riunione per il caffè, non fa differenza, come sempre, riunisce cinquanta persone attorno ad un tavolo.”
“Un cesso di gioco in un tavolo del genere”, dice Ciro tra sé.
Il fatto sembra toccarlo da vicino.
“Dunque ci sediamo”, dice Totò “e ci guardiamo negli occhi. Rappresentanti di polizia, tutori della legge, sociologi delle scuole di polizia, esperti di finanza, un hacker completamente ricciuto, diventato completamente buono, uno o l’altro agente segreto, mal camuffati. Tutto ciò che hanno da offrire i cosiddetti sistemi di sicurezza europei?.
“E qual è il risultato?”, dico io.
“Niente”, dice Ciro. “Nulla a parte la voce dell’interprete dagli auricolari. Credetemi, sono da sempre nell’associazione e so muovermi. E’ soltanto un alibi, una cosa spettrale. Non c’é da meravigliarsi di un Presidente del Consiglio come datore di lavoro, nei cui confronti indagano o fanno processi  tre dei Paesi partecipanti al Congresso. Così, per precauzione,  si mandano soltanto i Totò e i Ciro. La nostra polizia viene trascinata di conseguenza in rovina. Così é. Ma: A chiagnere ‘nu morto so’ lacreme perze. A piangere un morto sono lacrime perse."
Guardo Totò che continua a girare il suo caffè.
“Che si ottiene, Tschenett? Si ottiene una settimana a Napoli per il poliziotto che viene dal confine, dal Brennero al golfo. Sale riunioni eleganti, classica vista sul mare, in un castello, che in tempi normali serve da Museo Etnopreistorico. Visto così non è male."
Totò non sembra particolarmente contento.
“Il museo è stato chiuso per due settimane”, dice Ciro, “cinque giorni alla ricerca delle cimici. Tre unità dei colleghi napoletani sono responsabili della protezione."
“Dopodiché non vi può succedere nulla”, dico
“Scherza pure, Tschenett”, dice Totò. “E’ impressionante. Uno spreco totale per nulla. E noi stiamo in mezzo."
“Bisogna capire la logica”, dice Ciro.
“Basta che vieni e osservi”, dice Totò
“Chi io?” L’idea di andare a questa manifestazione strana, in mezzo al preistorico, non mi piace affatto. “Come dovrei entrare?”
“Come mio confidente”
“Mai."
“Come mio consulente personale”
Ciro si alza. “Allora andiamo. Devo rimanere ancora un po’ in ufficio. Ci incontriamo davanti a Castel dell’Ovo."
Totò annuisce. E rimango poi seduto da solo al tavolo.
“Che fai”
“Vengo”, dico.





Capitolo IV

Nun è ca dico: ‘O mare fa paura
Ma dico: ‘O mare sta facendo ‘o mare

Qui il mare ammazza il tufo e il tempo. Qui è sempre ieri e qui è sempre domani. E da qualche parte, nelle volte interrate di questa fortezza, da qualche parte, nei meandri di questo castello, è nascosto un uovo d’oro*. E dietro ogni angolo, uno scheletro, sotto ogni arco della porta un osso, su ogni gradino un cranio. Ne sono morti tanti, sono morti tutti alla ricerca dell’uovo d’oro, abbandonati, rovinati, morti. Quando vi aggirate nel castello con le vostre scarpe domenicali, immaginatelo, quando con le vostre innamorate state sulla balaustrata  e osservate la marea, immaginatelo, quando gettate lo sguardo dai suoi merli , non immaginate nulla di tutto ciò. Questo castello è lontanissimo da voi, come voi vi ci avvicinate. Questo castello non sta affatto qui, questo mare non si infrange affatto qui, questo castello sta in una terra maledetta, che voi non conoscete, questo castello sta in un Paradiso che voi stessi non desiderate, questo castello non c’é e questo castello è sempre stato qui. Ed io sono soltanto un uomo povero e vecchio, sono soltanto uno che da tempo si è lasciato dietro la vita, anzi più che la vita, la morte me la sono già lasciata alle spalle, così come l’amore, la sofferenza e la passione, davanti a me continua ad esserci soltanto questo castello e il tufo e il mare. Riesco a sentire ogni vostro passo, riesco ad udire ogni vostra parola, riesco a sentire ogni vostro sguardo, gridate di giorno e gridate di notte, gridate quando ridete e gridate quando cantate, gridate quando piangete e gridate quando vi baciate. Avete paura di questo castello e avete paura di queste pietre e  avete paura di questo mare. Io sono il guardiano di Castel dell’Ovo.




Capitolo V

“Come lo conosci, Ciro?”
“Una storia vecchia”, dice Totò. “È stato il nostro insegnate più giovane alla scuola di polizia, intorno ai trenta, allora. Lo chiamavamo ‘o prufessore. Ad un certo punto spuntò fuori lui, come supplente di un ispettore che era stato in malattia per un anno, il quale  evidentemente provava più gioia con i carciofi del suo giardino che con noi. Eravamo in piedi sugli attenti in classe, la porta si apri’ ed entrò questo napoletano strano e la pace finì. Da quel momento, soltanto gli idioti rimasero sugli attenti.
“Un uomo piacevole, non agitato."
“E una buona forchetta. Andreste d’accordo.”

Come se non avesse mai nevicato. Il sole splende sul Golfo di Napoli, si erge sulle colline, l’asfalto è da tempo di nuovo polveroso. Se non fosse il Vesuvio e la sua cappa di neve che arriva fino ai primi paesi, da tempo diventati città, lingue bianche che leccano la terra; se fuori, sul mare, le nuvole non si ergessero scure come un muro, non crederei mai che, soltanto  un paio di ore prima, giacevo a terra bagnato. Come se il mondo fosse un altro.

“E allora Totò?”
“Ordinaria amministrazione. Tutto come prima.”
“E ciò significa?”
“Da molto tempo mi sono stufato del lavoro al Brennero, da tempo non so neanche più come mai sono diventato poliziotto. Aspetto solo l’occasione per dare le dimissioni.”
“L’occasione? Da quanti anni? Non lo pensi veramente.”
“Pretesto, impulso, una cosa del genere. Se sapessi, cosa succede dopo, ce lo saremo già lasciato alle spalle. Non riesco  come te a nascondermi in qualche porto."
Alle nostre spalle echeggia una voce che fa gli scongiuri. Mi giro: un vecchio che parla al vento.
“Totò, hai una debolezza di carattere di fondo. Non sopporti il non fare nulla."
“Male. Hai vissuto troppo tempo al nord”
“Lo puoi sempre imparare di nuovo.”
“Forse, quando si è arrivati alla terza età, come te."
“Per via di otto anni…”
“Tuttavia, Tschenett. Ti rinchiudi da una parte, non ti fai né vedere né sentire, fatta eccezione di una o due cartoline. E nessuno sa con che e di che vivi."
“Non ho nulla da fare e mi basta.”

Ci sediamo su un muro, dietro di noi Castel dell’Ovo, davanti a noi il Golfo di Napoli, facciamo ciondolare i piedi come i giovani e guardiamo il mare, come se là non esistesse altro. Il vecchio è scomparso borbottando dietro al muro.

“E se avessi bisogno ancora di un paio di dracme, farei quello che faccio a volte: mi aggiro tra le lingue, traduco quindi a volte nelle trattative che si svolgono nel porto, come italiano di servizio, e non mi è ancora molto chiaro che cosa in effetti ci si aspetti da me, quello tra le parole di investigatore o questo  tra gli uomini, che a quanto pare ci si aspetta più da noi che da altri (Mi chiedo se non sia sbagliato, un grande errore, che si nutre della vista sulla Bellitalia?) Oppure io mi trovo ai tegami in una piccola ouzerie. Dopo che ho mangiato lì per anni, senza lamentarmi, anzi: a volte molto contento, si pretende da me subito i piatti più semplici e allora il cuoco può ricorrere al bouzouki e gli ospiti ciononostante non muoiono di fame. Le cose si risolvono da sé. Una vita fattibile."
 Una nuvola si è impigliata sul Vesuvio, il vento soffia su di lei con forza e la porta verso la bandiera. Un piccolo imbroglio. La montagna non riprende a fumare*.
“Ti ricordi l’anziano di Brindisi?. Quello con tanti nomi? Krassimir, Bashkim, Khaled, Jorgos, Cosmo, Demetrio, Agesilao, Francis, Michail Petrowitsch, Nilo. Non abbiamo mai saputo come si chiamasse in realtà, finora non conosco il suo vero nome. Non so esattamente di che cosa e per che cosa vive. Non so neanche se vive ancora, nella sua stanza d’albergo al porto di Brindisi. So, però, che continuo a stare nel suo appartamento a  Salonicco, sotto un tetto, direttamente sul porto, due metri quadrati pieni e una vista stupenda, un punto di osservazione tra colombi e gatti come tra cielo e terra e per Dio, non sono quei gatti grassi del nord, non sono quelle bestie rotonde, odiose, bensì esseri che si arrampicano rognosi feroci e magri che sembrano vivere nella propria città."
“Napoli è piena di questi gatti."
“Per questo sono qui, Totò.”
“Grazie, Tschenett. Bel complimento."

“Ecco che viene Ciro.”
E ha fretta. Rema con le mani lungo il corpo, come se lottasse contro il vento, quando non ce n’é; la parte superiore del corpo leggermente piegata in avanti e viene verso di noi, nessuna parola, nessun segno, mentre entrambi lo guardiamo mentre percorre la strada lungo l’acqua.
“È arrabbiato”, dice Totò. “Mi ricordo di un giorno in cui Ciro, proprio con questo passo, entrò in classe. Era un po’ più magro allora, ma l’atteggiamento era lo stesso. Era il giorno della strage di Piazza Fontana, del giorno in cui una bomba nella Banca Nazionale dell’Agricoltura dilaniò sedici persone, ferendone ottanta. Ufficialmente per la polizia doveva trattarsi degli anarchici. Ciro si mise in piedi davanti a noi, prendendo fiato tutto insieme e poi calmo, quasi in modo impercettibile: ‘Ve lo dico io: Sono stati i fascisti. E noi li copriamo’. Poi si sedette e parlò, senza punti né virgole e documenti, per un’ora, di tecniche di sorveglianza. Una materia arida, non sensazionale che non preannunciava nulla di buono per il futuro, a parte stanchezza, noia, piedi gonfi e orecchie congelate. Molto diverso da  quello che noi abbiamo appreso dai film. Ma Piazza Fontana era lì e Piazza Fontana rimase lì."
“C’era già qualcosa, un paio di mesi fa…”
“Sì. Una Corte d’Assise, infine, trent’anni dopo, ha deciso, che sì erano stati i fascisti. E che sono stati coperti per tutti gli anni dalle nostre polizie, dai diversi e sempre messi a nuovo servizi segreti e dagli amici d’oltremare. Chi si avvicinava troppo a loro, veniva dirottato in altra direzione. Piste false, prove sparite, persone morte all’improvviso.”
“E Ciro?”
“Se mi chiedi se è stato il giorno in cui il suo cuore di poliziotto ha fatto un salto. Negli ultimi trent’anni è successo abbastanza per ampliare ancora di più il divario tra lui e la sua polizia. Piazza Fontana è la sua ferita aperta. Ma lui ne parla raramente. E da tempo ha l’artrite alle ginocchia.”

“Ciao, Ciro. Che c’è di nuovo?”
“Addò vaje truove guaje. Dove vado trovo guai." Ciro sembra essere pieno di questi detti. Almeno uno per ogni situazione della vita. E l’attuale non sembra garbargli particolarmente.
Sta in piedi davanti a noi, cerca nel fondo delle sue tasche dei pantaloni e guarda il mare, come se ci fosse qualcosa per lui da vedere, quando per noi tutti c’è soltanto acqua calma, onde tranquille, nel miglior caso il ricordo dei viaggi. (E per vecchi marinai come noi, il ricordo, che fa venire i brividi, del Mare del Nord ghiacciato; è passato molto tempo ed è lontano in questo momento. E poi il sole dell’inverno riscalda troppo).
“Addò vaje truove guaje.” Lo ripete lentamente e canticchiando. Totò diventa nervoso, fatto che, come già dieci anni fa, si evince da come, a bocca aperta, cerchi la prima parola. “È…”
Ciro scuote subito la testa.
Totò mi guarda, io lo guardo e pensiamo: Che succede? Restiamo in piedi e prendiamo anche noi a fissare il mare. Ma non c’è nulla. Nulla che ci possa venire in aiuto.
Allora aspettiamo.
E allora Ciro tira fuori le mani dai pantaloni, spuntano dalla mano destra, che guardava il pavimento, l’indice e il mignolo (il medio, l’anulare e il pollice erano stretti sul pugno della mano) e fa le corna, il rimedio magico antichissimo per scongiurare il malocchio, la jettatura, allontanare da sé disgrazia e sfortuna, si gira, Ciro, già mezzo risollevato e si appoggia poi  vicino a noi sul muretto. Si tira il lobo delle orecchie e comincia a parlare, davanti a sé.
“Sono nel mio ufficio, tu lo conosci”, dice. “Avevo da fare ancora per poco. Nulla di particolare."
Lobo delle orecchie.
“M’hanno messo ‘o gallo.”
Lobo dell’orecchio.
Gli hanno messo un gallo in ufficio. Decapitato.
“Era ancora caldo. A quanto pare lo hanno portato via ancora vivo.”
Lentamente immagino quello che Ciro vede fuori nel golfo.
“Chi è stato?”, dice Totò.
Ciro solleva un po’ le spalle. Si tira il lobo dell’orecchio, ora anche la punta del naso. Come se qualcuno lo stesse sempre a imbrogliare. “Non lo so. Ma lo dovrò scoprire. E in fretta.”
“E tu dici che non stai lavorando a nessun caso….”
“No, a niente, Totò. Veramente no. Ma chissà. In questa città si ha sempre a che fare con qualcosa. Che si voglia o meno. È come nei corridoi sotterranei, è tutto collegato con tutto, qui sbatti contro una pietra da pavimentazione e lì crolla un palazzo. Napule per l’appunto.” .
Me li guardo entrambi. Anche tra di loro sembrano esservi come dei segreti canali di comunicazione: due poliziotti italiani con anzianità  di servizio. Anche se Totò è più giovane di circa quindici anni.
“E adesso…”, dice Totò. Emerge il sistematico che è in lui.
“…prima di tutto denuncio il furto della mia auto di servizio."
“Come hai detto?”
“Ma sì. Sono di ritorno dal mio ufficio, sulla strada…….e non c’è più. Adesso cerco di procurarcene una nuova. Alla mia età non voglio mica diventare un pedone.”
Si preoccupa. In ogni modo, anche la mia sacca da marinaio è sparita. Prende il suo telefonino, compone un numero e va avanti e indietro davanti a noi, mentre parla.
“Come stai?”, dice Totò. Conosce il mio problema, quello che riguarda i pennuti.
“Bene”, dico. “Eccetto la sacca da marinaio. Senza non si ha nulla nella vita."
“Tu hai però me”, dice Totò. Ed io annuisco, rassegnato al mio destino.
“Va bene”, dice Ciro e sembra di nuovo aver ripreso forza.
“Adesso per prima cosa andiamo a questa conferenza. Proprio come se nulla fosse. Tre uomini inutili attorno ad un tavolo inutile."
E, nell’andare a Castel dell’Ovo, aggiunge: “Una buona idea: Forse è stato anche il capo della polizia a desiderare che io con i miei cinquantotto anni andassi finalmente in pensione. Fuori dai coglioni, rompicoglioni."




Capitolo VI

Lentamente per la strada rocciosa fino al castello, rimasto a corto di fiato per alcuni secondi e uno non sa: é la strada ad essere corta o la vista ad essere lunga.
E poi davanti ad un Carabiniere in uniforme, senza fare commenti; fatto che ogni volta mi costa una mezza violenza su me stesso, questa arma, come la chiamano coloro che la amano, è troppo irreale, nel vestire e nel modo di pensare. E davanti ai Carabinieri in abiti civili, nei quali l’uniforme si riconoscerebbe anche in costume da bagno.
Pensare che in questo Castel dell’Ovo ci sia un Museo di Etnopreistoria e che questo museo attualmente ospiti una Conferenza Internazionale su Qualcosa come l’Oltrefrontiera, mi fa per un attimo inciampare.
“Avanti amico”, dice Totò, facendomi l’occhiolino in segno di incoraggiamento, nella sua astuzia godereccia, “avanti, Amico, non abbandonarmi.”
E poi davanti ai poliziotti in uniforme, senza fare commenti. E, davanti ai poliziotti in abiti civili. Totò annuisce in segno di saluto e anch’io faccio lo stesso.

Poi il tavolo del ricevimento, tre giovani poliziotte e un giovane esemplare maschile, rossi in viso allineati e freschi di phon, dietro cumuli di documenti e liste lunghe pagine e pagine, in cui con zelo rovistano, protetti da spalle larghe, con gli auricolari in testa, le mani incrociate sul sesso; dove sono gli occhiali da sole? Penso, dove? Resto quasi  inorridito, fino a quando non vedo infine i quattro all’entrata della sala: pure loro con gli occhiali, e  già siamo tranquilli e la domanda viene repressa, Totò mi prende sotto braccio, trascinandomi, fin proprio davanti allo spigolo del tavolo.
Buon giorno. Il documento e gli atti della riunione per i colleghi, prego. Finalmente è arrivato.”
Mi guarda con fare di rimprovero.
“Sempre così, quando questi milanesi arrivano troppo tardi, danno la colpa alla nebbia. E’ sempre la vecchia storia:  niente treno, niente volo, niente automobile. Come se per questi milanesi, la nebbia fosse di cemento per i bunker atomici. E’ solo arroganza da nordisti.”
Totò parla il suo pugliese stretto, la lingua del sud di suo nonno, che, per quanto ne so io, ha imparato per la prima volta all’epoca del servizio militare.
“Pensano sempre che noi qui nel Sud siamo capaci solo di rubare gli orologi e non di portarli”.
La giovane poliziotta rimane così freddamente impassibile che io quasi vedo il suo paese lucidato a specchio sulle propaggini collinose del nord della Pianura Padana.
“Cognome e nome."
“LoPiccolo. Adriano LoPiccolo. Senza rango.
E Totò sfoggia uno dei suoi sorrisi più intriganti.
E’ un agente segreto, signorina collega. Così segreto che può permettersi questo nome stupido.
Adriano il Piccolo: Ha mai sentito una cosa così divertente?
(Sì, Pipino il Grande). Che  può diventare uno così nella vita? A parte uno sterminatore di popoli o un assicuratore da quattro soldi?
“LoPiccolo, LoPiccolo, LoPiccolo…”
Scorre la lista con le dita leggermente smaltate di rosa.
“Non risulta.”
Totò alza la testa, sta fermo decimi di secondo densi di significato e abbassa la testa fino al petto.
“Capito."
Adesso anch’io annuisco . Con il mio viso inespressivo.
Rimaniamo allora calmi e aspettiamo.
“Allora?”, dice la giovane dama, “allora…”
Totò allarga le braccia in modo eloquente.
“Magari."  Si vede che sta pensando.
Le diamo impassibili  tempo e spazio.
“Magari…”
Si legge dai suoi occhi e poi lentamente in viso: Forse è così segreto, che può  permettersi di non potersi permettere un nome.
Guarda Totò con fare interrogativo.
Lui annuisce in silenzio.
Io sbatto leggermente le palpebre.
Mi rendo conto come è semplice essere in un certo qual modo importante e segreto a questo mondo. Ogni parola che dici, ti fa essere più piccolo. Ogni suono che emetti, ti rimpicciolisce. Ogni esclamazione ti tradisce. Il parlare uccide. Le parole sabotano. E: Risposte mai. Fai al massimo delle domande. E lasciale a metà. Lasciale da sole, abbandonate, bisognose di aiuto. Porgile a metà . Voilà.
Oppure fai come Totò: Parla senza prendere fiato, senza punti né virgole. Stesso risultato. Voilà.
“Arrivederci."
E via.




Capitolo VII

Il tavolo rotondo di Ciro é in realtà un ovale lungo fatto di un’impiallacciatura della serie QUI SI DISCUTE DI COSE DI MASSIMA IMPORTANZA, MA COSI’ CARA NON DEVE POI ESSERE, posizionato in diagonale in una stanza appariscente, siamo seduti in fila duri come l’acciaio; vestiti elegantemente tutti di scuro  (sono contento della mia giacca grigia, il cui grigio qui è diventato ancora più grigio; il pullover rosso di Ciro non me lo sarei mai potuto permettere: sarei stato scoperto nel giro di pochi secondi. Indossa il rosso come un’onorificenza, conferitagli da un impero tramontato e nel frattempo quasi totalmente dimenticato), sulle teste diligentemente gli auricolari e le voci dell’interprete, i più audaci si sono attaccati un microfono dietro l’orecchio, ne conto quattro di loro, dalla mia poltrona: sto seduto come se stessi alla finestra della mia casa sul porto di Salonicco, curioso, non partecipe, al posto di osservazione.

ALLA COMMISSIONE EUROPEA E’ STATO DA POCO CONSEGNATO IL PROGETTO “EUROSHORE. PROTECTING THE EU FINANCIAL SYSTEM FROM THE EXPLOITATION OF FINANCIAL CENTRES AND OFFSHORE FACILITIES BY ORGANISED CRIME”, FINANZIATO NEL 1998 DAL PROGRAMMA FALCONE DELLA COMMISSIONE EUROPEA E REALIZZATO DAL CERTI (PROFESSORI UCKMAR E MARINO), IN COLLABORAZIONE CON TRANSCRIME/CENTRO INTERDIPARTIMENTALE DI RICERCA SULLA CRIMINALITA’ TRANSNAZIONALE DELL’UNIVERSITA’ DI TRENTO).

Eccetera. E così via. Non formulano frasi, ma eternità nei microfoni. Ed eternità mi giungono dall’auricolare nell’orecchio

CORRUPTIE-ACTIVITEITEN ZIJN IN STRIJD MET DE BEGINSELEN VAN NIET-DISCRIMINATIE EN VAN VRIJE CONCURRENTIE DIE OP DE INTERNE EUROPESE MARKT WORDEN GEHANTEERD OM HET VRIJE VERKEER VAN GOEDEREN EN DIENSTEN TE WAARBORGEN

quando io ero piccolo, diciamo avevo circa cinque anni , mi inseguì un cane per strada. E fu la prima volta nella mia vita. Mi è capitato poi spesso nel corso degli anni, a nulla ero così poco preparato. Sbucò allora questo cane. Per me dalle viscere dell’inferno. Una bestiaccia nera, con il pelo a ciocche bagnate. Effettivamente nulla a cui uno potrebbe sopravvivere. Così imparai a fare il morto

SE VOLESSIMO SAPERE IN CHE COSA CONSISTE LA MINACCIA, DOVE SONO I PERICOLI CHE CORRIAMO NOI IN EUROPA A CAUSA DELLA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA , POI MI SEMBRA

l’altro animale, davanti al quale io sono fuggito, annaspante, era una mucca. Questa mucca zoppicava con la zampa posteriore destra, allora non sapevo, anche adesso non lo so, che cosa le fosse capitato. Il fatto è che la mucca, che aveva uno di quei nomi con cui le donne non vogliono più farsi chiamare, la mucca al mattino, nell’andare dalla stalla al pascolo, che io per pura coincidenza (perché stavo andando effettivamente troppo presto al lavoro, che allora consisteva nel girare per tutta la santa mattina la polenta nel paiolo di rame sul fuoco, fino a quando il Capo dello Stato, a piedi e con le scarpe da montagna, perché era stato un partigiano e quindi apprezzava il lusso delle scarpe da montagna funzionali e quello della polenta fresca, a mezzogiorno suonato, ritrovava le forze intorno al tavolo della malga) per pura coincidenza riuscì a vedere come le mucche se ne andavano sull’erba bagnata del mattino: non era un bel quadro per occhi molto assonnati  (soltanto il turista è riposato al mattino), e questa mucca, ancora zoppicante, mi passò davanti con quella chiazza sul collo: e la sera lo stesso. Così ci si incontra. Mentre andavo in discoteca (si è ancora giovani e la strada a piedi la accettiamo di buon grado come biglietto d’ingresso), si abbatte un fulmine. Esplode. Soltanto che adesso la mucca pensa: sono stato io. E mi carica

KORRUPTION FORSTÅS I ALMINDELIGHED MISBRUG AF MAGT ELLER ANDRE UREGELMÆSSIGHEDER I BESLUTNINGSPROCESSEN FORANLEDIGET AF EN UTILBØRLIG TILSKYNDELSE ELLER GEVINST. DOG BETRAGTES IKKE ALLE DE FORSKELLIGE FORMER, KORRUPTION KAN ANTAGE, SOM FORBRYDELSER

il penultimo animale che mi voleva fare la pelle (forse perché mi ero ingoiato la spina) è stato un pesce. Per più di un’ora lo avevo aggattonato, lo avevo avvolto piano piano in cappi sempre più stretti, lo avevo guardato negli occhi,  e poi mi ero rivolto per gioco verso un altro, freddamente avevo girato le spalle al mio pesce e guadagnato così la sua attenzione.

DIE PERSPEKTIVE DER DEFIZITE IN DER BEKAEMPFUNG DER ORGANISIERTEN KRIMINALITAET DARZUSTELLEN. DIE ZU WUERDIGENDEN PROBLEMFELDER KOENNEN DABEI IM RAHMEN MEINES BEITRAGES NUR BEISPIELHAFT WERDEN. ICH WERDE MICH

infine lo acchiappai: entrambi eravamo stanchi del gioco. Aftò to psaràki. E la venditrice di pesce mi annuì elogiandomi: bella scelta, giovanotto. E’ la strada che faccio ogni giorno tra i basàri di Salonicco; prima la doppia fila dei banchi del pesce nei passaggi più stretti del vecchio capannone, poi le traverse, più ampie, anche più rumorose, i mucchi di pesce più grandi, montagne.
Guardo a sinistra, guardo a destra, rimanendo in piedi, avvicinandomi, ascoltando  soltanto a mezzo orecchi tutti gli elogi come una qualche musica di sottofondo, gli occhi si spostano quindi da una parte all’altra sull’infinito accumulo di corpi, occhio dopo occhio, fino alla terza passata (nel frattempo i prezzi capitolano, il compratore affrettato non si deve aspettare generosità: a ragione. La fretta qui  é tollerata meno che altrove), al terzo giro il pesce, che inizialmente ti aveva già sorriso, annuisce sommessamente e con le guance paffute dice: Sissignore! E allora la psaroù ti loda, accetta di subire la perdita, te lo dà da amica ad un prezzo tondo in dracme e te lo mette in mano. Adesso è tuo. Poi la camminata tra gli ortaggi. Sedano, carota, cipollina, prezzemolo, pomodoro e chortàrika (una volta i crauti dei poveri e quindi dal sapore molto amaro).  Su questo letto sta bene  il pesce nella sua pentola, il timo in pancia, mantenuto umido con il sugo di cottura del pesce, l’olio d’oliva ed una spruzzata di ouzo, si aggiunge aglio, pepe e una foglia di alloro. Assolutamente niente sale. E quando tu lo fai nuotare nel piatto in un mestolo di questo decotto, questi ti guarda di nuovo sorridendo.

DELLE AZIONI E DEGLI STRUMENTI DIRETTI ALLA “PREVENZIONE DELLA CRIMINALITÀ’ ORGANIZZATA”, SETTORE NEL QUALE SONO IMPEGNATI RICERCATORI, OPERATORI DI POLIZIA E GIUSTIZIA, AUTORITÀ LOCALI E IMPRESE. SI TRATTA DI UN SETTORE CHE SI SVILUPPA ATTRAVERSO UN’IDEA GIUSTA: QUELLA DI

mi sarei però quasi soffocato con una spina. Per la prima volta nella mia vita. E’ stata una lotta equa.

RITENERE POSSIBILE PREVENIRE LO SVILUPPO DELLE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI RIDUCENDO LE OPPORTUNITÀ DEI LORO AFFARI CRIMINALI, ATTRAVERSO UN SISTEMA DI DEREGOLAZIONE O RIREGOLAZIONE DEI “MERCATI”, IN CUI

intanto: da dove viene questa fame improvvisa? (Totò sbuffa piano. Come se avesse annusato qualcosa)

DURING THE HIGH LEVEL CONFERENCE ON CRIME PREVENTION IN PRAIA DA FALÉSIA (ALGARVE)

non smette. Una metà del tavolo sembra morta, l’altra ha lo sguardo fisso nel vuoto. E Ciro resta per tutto il tempo seduto come inchiodato, gli auricolari davanti a sé sul tavolo, l’auricolare sinistro nel pugno sinistro, l’auricolare destro nel pugno destro, ben sigillati come se dovesse sottrarsi a qualcosa di pericoloso, sguardo in avanti, senza fare mosse: un rabdomante senza successo. Il gallo con la testa mozzata deve frullargli ancora in testa.

DURANTE LOS ÚLTIMOS AÑOS SE HAN CELEBRADO VARIAS CONFERENCIAS Y SEMINARIOS CON EL FIN DE DEFINR UNA ESTRATEGIA EUROPEA CONTRA LA DELINCUENCIA, CONCRETAMENTE EN ESTOCOLMO


E le galline. Hanno inchiodato alle tavole le galline di Berta.

SI INCONTRANO DOMANDA E OFFERTA DI SERVIZI

il motivo ero stato io e il mio essere poco serio. Non me lo sono mai potuto dimenticare. Berta, mai più vista da quattro anni, sentita una volta per il solito  San Silvestro, fallimento inesorabile, non c’è stato nulla da dire, come non c’è nulla da dire in una telefonata del genere nei giorni di festa, a parte gli auguri, che, telefonicamente, però, raramente hanno effetto, per il resto telefono muto; Berta, la mia locandiera nei dodici anni tra traversate e vagabondaggi, la mia locandiera nella pianura di montagna fredda e umida, fuori mano, oscura, abbandonata, alla quale comunque ad un certo punto passava ogni strada che percorrevo nei miei giri per l’Europa con il camion, un brandello roccioso di terreno davanti alla casa, sul quale un trattore trova appena posto e nella casa angusta,  chiusa tra le rocce, la strada e il ruscello, costruita tegola su tegola da suo fratello, la parete posteriore da allora un po’ obliqua, poco prima che per sbaglio, e sbagli del genere non sono nulla di particolare, più frequenti di quanto si pensi, per sbaglio quindi lo incorporassero nelle fondamenta di un pilastro della seggiovia, nessuno dei turisti, che da allora si fa trasportare sulla montagna fino alla prossima bettola, sia d’estate sia d’inverno, si immagina che cosa si nasconda sotto, l’anima sfortunata; così Berta era tornata nella casa anni fa in questo luogo lontanissimo, e si era guadagnata da vivere, lavorando inizialmente con un bar illegale, per un paio di vecchi contadini e personaggi come te, Tschenett, che non possono passare senza non prendere un bicchiere di rosso o di bianco dalla bottiglia da due litri che,  insieme alle galline e alla piccola pensione, che ogni giorno si fa sempre più piccola, le basta per vivere, soprattutto quando, negli anni fiorenti della giovinezza si é perduto tutto, l’innamorato con un escursionista sulla parete sud del Tribulaun, e come succede ai turisti, quello cade dalla parete, mentre l’innamorato rimane appeso alla fune, e così te come innamorata sei già vedova e capisci che gli uomini se ne vanno sempre, in un modo o nell’altro e quando cadono dalla parete. E questo basta per il resto della vita e allora ti attacchi alle galline, e fino a quando con loro va tutto bene, bisogna sopportare persino un Tschenett come te con la sua testa da eterno bambino.

ILLECITI. IN DIREZIONE DI UNA RIDUZIONE DELLE OPPORTUNITÀ CRIMINALI

e così hanno inchiodato le galline di Berta alle tavole. Una ad una. Tutte. Una per chiodo. Un paio si muovono ancora. E tutto per colpa tua, Tschenett, è tutta una storia tua

LATITANTI AFFILIATI A SODALIZI DELINQUENZIALI DI TIPO MAFIOSO, CATTURATI ALL’ESTERO, SIA DALLE NUMEROSE OPERAZIONI DI POLIZIA

e poi vai nel gallinaio e guarda tu stesso, Tschenett. E’ questo che hai detto, Berta. Senza emozioni. Da allora non più una parola a riguardo. Ma io: Pagherete per questo, maiali. Ho detto. E ho pensato: Questa grottesca magia vudù è stata pianificata in ogni dettaglio. E non capivo perché: chi pianifica una cosa così nei dettagli, non paga. E poi i tuoi passi, ed io: Berta?
Tschenett?
Mi dispiace. Te lo prometto, non succederà mai più.
E’ già successo.
Che ne è delle nove galline e del gallo che ho trovato al mercato dai tuoi clienti abituali? Riuniti e portati pezzo per pezzo sotto braccio nella nuova casa?
Che deve esserne di loro, Tschenett? Sono galline. Fanno le uova. Il gallo canta, a volte. E loro razzolano.

PAUSCHALEN VORWÜRFE, LIECHTENSTEIN SEI EIN IDEALER GELDWÄSCHEPLATZ, SIND MIT SICHERHEIT UNBERECHTIGT UND





Capitolo X

Nell’ufficio buio di Ciro c’é odore di vernice, fresca e umida. Anche di detersivi forti. Là sotto, come per nascondersi temporaneamente dalle conquiste della petrolchimica, permane ben consistente quell’odore segreto, per nulla disposto a farsi cacciare dalla casa,  così su due piedi.
Totò si guarda intorno e annusa.
“Sì”, dice Ciro. Si sente ancora. Ma solo se si sa, come era qui prima. Sangue dappertutto. Sedetevi."
“E io non posso fare a meno di osservare attentamente  la sedia.
Ciro sogghigna. “Non ti preoccupare, Tschenett: ho dato l’incarico a esperti. Gente che una volta non si occupava di affari così puliti, ma che era conosciuta per fare un lavoro pulito. Piccole misure per reinserirsi nella nostra onorevolissima società."
Smetto di preoccuparmi.
“A proposito, Totò: Non ho raccontato nulla ad Angela della faccenda."
“Angela? E dov’è?”
“Viene anche troppo presto”, Ciro guarda l’orologio. “Doveva in effetti già essere qui. Voleva assolutamente vedere il nostro amico Tschenett."
Stai attento Tschenett.

L’ufficio di Ciro è un luogo che resta a lungo sinistro, fino a quando non si varca la soglia.
Passi per i vicoli della città vecchia, a sinistra, a destra, di nuovo a destra, ti fai strada tra uomini e motori e te li godi, le lingue, gli odori e la grande gioia, dopo vai sul retro, passi per il portone, ti trovi nel cortile pallidamente illuminato del palazzo barocco della città, piano per piano,  ballatoi, abbelliti con ferro battuto, dietro i quali si innalzano le scale, un labirinto confuso di archi e scale a chiocciola, pennacchi e balaustre, corone d’alloro di marmo grigiastro, di uno stucco giallino che si sgretola; da fuori salgono i vapori della strada, dalle abitazioni che vi si trovano, marito e colorature, gonna e bambino piccolo, affamato e insonne, e sempre dietro, e la parmigiana di melanzane, dietro questa finestra, ti viene fame, e la tentazione è sempre più forte, di fermarsi là davanti, fino quando non si scodella e una mano benevola ti porge un piatto… Proseguiamo però: il corridoio stretto e buio, passiamo per la porta grigia, dopo questa porta pesante, di ferro, a doppia mandata, un campanello, senza nome, rimasto appeso all’intonaco solo per metà, sopra il videocitofono e Ciro gira per aprire, una volta, due volte e fa un cenno, di seguirlo per un budello in calcestruzzo, senza finestre, con la luce verde del neon, dopo i colpi alla porta tutto silenzio di tomba e calmo e improvvisamente senza anima viva, soltanto il forte eco dei passi, come colpi, non metterti a correre, ora, e a respirare più in fretta, sempre dietro ai due, e la seconda porta si apre da sola e da qualche parte giunge un fischio ritmico, un segnale, fino a quando non si richiude: una rampa grigia di cemento senza intonaco, su le scale ora, due piani, ansimante dietro, la scala antincendio, finalmente arrivati, pavimento di marmo chiaro, porte interne rivestite di materiale plastico degli anni ’60, da nessuna parte una targhetta al campanello, ovunque nessuno, ovunque nessun odore, ovunque nessun  rumore, e Ciro dà ancora mandate, apre la porta, allarga le braccia e: “Prego”.

E se ti fermi a guardare, Ciro con fare interrogativo, ti dice: “Non chiedere. E dai, siediti."
Mi siedo.
“Ebbene sì. Ti vuole vedere, Tschenett. Il marinaio greco dei ghiacci del nord: Angela ha un debole per i marinai. Per mio rammarico. Sono dell’idea che l’unica debolezza che potrebbe permettersi dovrei essere io. Ma si diventa buoni, con il tempo.”
“Proprio”, dice Totò, “quando si è fidanzati da tre anni e il fidanzato non è più il più giovane."
“Giusto”, dice Totò e sorride.
“Angela”, dice Totò. “Angela è una donna meravigliosa. Quindi non ti fare strane idee, Tschenett:”
“Dove siamo Ciro?”, dico io.
“Non cederà, Ciro”, dice Totò. “Lo conosco."
“Non sto bene in questa stanza”, dico io, “ e non a causa del pollo macellato. Voglio capire, come mai."
“Che vuoi sapere?”
Ciro si è chinato dietro la sua scrivania e mostra una bottiglia di vino bianco.
“Ma che casa è questa? E che strada abbiamo fatto?”

“Ad un certo momento, quaranta anni fa, il Palazzo che originariamente stava qui, è semplicemente crollato. Si dice che abbia sotterrato due famiglie e mezza e le cinque capre che pascolavano nel cortile interno. Non so. Per un paio di anni lo sfortunato cumulo di macerie é rimasto lì, una ferita aperta, chi si trovava a passargli vicino, si faceva il segno della croce oppure si proteggeva comunque dal male. Si sono sentiti gli spiriti. E quelli, che lo sanno con precisione, raccontano, che il Palazzo, é crollato perché doveva, perché stava lì. Perché qui, in qualche punto del sottosuolo, centinaia di anni fa è successa una qualche storia di sangue. Ci si può credere, ci si può non credere. Non se ne esce comunque. Napoli avrebbe potuto vivere bene con queste buche, c’era abituata, è abituata alle buche, al provvisorio, è abituata alla metà, perché conosce il tutto. Poi sarebbero venuti dei signori da Roma – mio Dio, io non c’ero, potrebbero essere venuti da qualsiasi parte, per me dall’inferno di Tommaso d’Aquino, ma finora è probabile che siano effettivamente venuti da Roma - e dopo, tutto è andato molto veloce. Molto più veloce del consueto, sorprendentemente veloce. Ciò ha sconvolto ancora di più la gente. Anche il fatto che qui abbia costruito una famiglia del nord, almeno per alcune settimane, fino a quando poi non hanno dovuto prendere anche un paio di napoletani, finalmente, di notte il cantiere era costantemente rimasto vuoto. In seguito, qualcosa è migliorato. E ad un certo punto è comparsa la casa. Nessun napoletano voleva entrarci. Cosa che è venuta a proposito per i signori della casa, signori in abiti scuri, rappresentanti di impronunciabili uffici romani e procuratori di buffonesche ditte americane. Parliamoci chiaro: il fiancheggiatore sud della Nato, US-Headquarter-South-East, guerra fredda; qui c’era lavoro per molti. E non poteva far male se i napoletani vi girassero intorno (per la verità: alcuni ci hanno sputato davanti. Ogni giorno, per ogni strada che portava al lavoro, dopo ogni caffè da Toni e prima di ogni caffè da Pino. Dimmi, che c’eri anche te, dillo Totò. Ciro sorride, quasi benevolmente, comunque in modo indulgente. Sì. Questo palazzo in cemento era il segnale della vittoria, con il quale i napoletani avevano da vivere. Lo hanno fatto. Ma non hanno dimenticato). All’ultimo piano, se ancora vi interessa, all’ultimo piano ci sarebbe un appartamento da un taglio pauroso, si parla di quattrocento metri quadrati, si raccontano meraviglie di esso, quando, ad un certo punto, dopo il crollo del muro e l’inizio della presunta nuova epoca, si è trattato di decidere di che farne di questa casa fantasma,  rimasta nel frattempo vuota, anche se rimasta vuota naturalmente non significa che anche il portiere la dovrebbe abbandonare. Da trent’anni sta al suo posto, muto come una tomba, ho tentato, sperando che la sua sventura gli potesse ridare la parola. Rapporto negativo: Il grande passato impronunciabile lo fa essere fiero, a  vederlo così potrebbe essere napoletanissimo, invece è sardo, lo è stato, dopo tanti anni, il cugino di un cugino di uno zio romano, così una volta si andava per il mondo e quindi anche  a Napoli, non  per niente uno era uno dei grandi sardi di destra, e anche il grande di quelli di sinistra, e per essere più precisi erano cugini, oppure no? E soprattutto: sui sardi non è stato ancora detto nulla, si potrebbero scrivere libri interi su di loro, e se io una volta non avessi più nulla da fare, ma veramente più nulla, forse mi metterei a scrivere libri."

Continua a cercare un cavatappi.
“Vi annoio”, dice Ciro, lo ha appena trovato.
Totò si stiracchia comodamente.
"Il Tschenett sicuramente no, è proprio specializzato in queste storie assurde. A volte ho il sospetto che il nostro Tschenett non possa proprio vivere senza di esse. Che può essere anche un modo per non accettare la vita da adulti."
“Verissimo”, dico.
“Più non si sa di questo posto. A parte che debba esserci un ascensore segreto, espresso dal sotterraneo al cielo, a volte mi sembra come se io lo sentissi ronzare. Ma naturalmente sono stupidaggini belle e buone."
Totò si è procurato dei bicchieri.
“La casa è quindi vuota. Soltanto me e il portiere. E quando la massima carica di polizia di Napoli stava cercando un luogo in cui esiliarmi, ha pensato a questo. Ufficialmente io dirigo un Ufficio per Compiti Particolari. Vale a dire:  Non li devo più scocciare sui miei vecchi tempi. Per me va bene. In questo modo mi si lascia in pace.
“Va bene”, dice Totò, “dipende da come uno reagisce."
Ciro ci versa da bere. Solleva il suo bicchiere. Si guarda intorno. Sembra averci improvvisamente dimenticato, noi,  il suo bicchiere e il mondo che sta dietro.
Guardo oltre Totò. Lui annuisce in modo rassicurante. E poi aspettiamo, muti.

Mi guardo intorno nell’ufficio con la coda dell’occhio. Un ammasso di mobili orribili dei tardi anni settanta. Mobili di legno diventato grigio. Due armadi porta documenti di metallo di colore verde-bluastro, uno assicurato con una pesante catena. Un contenitore a rotelle, ammaccato, come se fosse stato usato impropriamente per cose che non si possono dire; una libreria stracarica. Senza occhiali non riesco a leggere i dorsi (prima o poi ci vogliono gli occhiali, oppure no? Bisogna prima abituare la testa.) Tende marroni, tirate su a metà. La scrivania di Ciro, vuota ad eccezione di due quotidiani e di un paio di cartine sottili, che non danno più un’idea di fresco. E dietro l’angolo, come se provenisse da un altro mondo, come se fosse stato lasciato dal vecchio Palazzo, che si erge dalle rovine, un tavolo da cucina scuro con le zampe larghe di legno vecchio.


“Io credo che si veda dalla stanza: qui non  succede più nulla di decisivo."
Ciro ha però deciso ancora di parlare.
“Da anni sono diventato, e niente affatto contro voglia, soltanto una sorta di poliziotto ausiliario, che si occupa delle banalità della vita, furfanti meschini e sfortunati, mercanti di cavalli, borsaioli, imbroglioni. Per la verità non esiste più il delitto  capitale, almeno da quando  Andreotti è stato assolto, Berlusconi è caduto in prescrizione e un fascista o l’altro è al Governo. L’ordinamento della nuova epoca ci rende superflui: Così superflui, che alla fine hanno rinunciato a scomunicarmi.
“Come hai detto? Tu, il vecchio professore e benemerito tutore dell’ordine…” Totò si diverte a parlare trafelato, “uno come te…Ma che sei ancora  in chiesa? Sancta romana simplicitas”*
‘O prufessore annuisce. “Il cardinale”, dice
Ora tocca a noi guardarlo senza capire.
 
“Il mio Cardinale mi ha perseguitato per tre anni”, dice Ciro. “Sebbene, se la domanda la rivolgessi a lui, lui  la vedrebbe esattamente al contrario. Per lo meno in parte. E con amorevole perdono. Come se ci fosse qualcosa da perdonare. La cosa è iniziata quando un magistrato inquirente delle zone vicine si è occupato di alcuni dei casi meno significativi di usura: un’attività quotidiana per entrambe le parti interessate. E per me, ho pensato, proprio il tipo di delinquenza che meglio mi si confà. Un reato quotidiano. Un bel cambiamento rispetto ai grandi reati. L’usura è antica come il mondo e questa città; é come se lei avesse vissuto sempre dei suoi rapporti, come se, indipendentemente da quando, il desiderio fosse stato sempre più grande del mondo, gli occhi dello stomaco, il cavallo del sacco d’avena. Con l’usura abbiamo imparato a vivere. E’ come se avessimo bisogno di lei per definire i nostri limiti. In effetti, e a ben vedere, è l’usuraio che ti dice quello che tu non puoi più fare, quello che non va più. Fino ad allora ci hai creduto; adesso lo ascolti e sai che è finita. Per la prima volta. Fino a quando non sei di nuovo pronto per un nuovo credito. E così la vita va avanti. Tra speranze e strozzinaggio. Così si diventa grandi. E così uno arriva, da solo e da decenni, alla prima auto. E così, uno pensa, è questo un caso come un altro e si mette così all’opera.  E poi è tutto diverso. E chiaro. E improvvisamente si rimane come quello che voleva farsi il segno della croce e si cavò un occhio. Iette pe se fa’ ‘a croce e  se cecai n’uocchio.  Improvvisamente, nelle proprie indagini, ci si imbatte nel proprietario dell’ufficio e dignitario e il cardinale, il veneratissimo cardinale di Napoli, viene accusato dal magistrato inquirente, che in una piccola città lavorava su  piccoli casi, di una fatto  grande: associazione a delinquere finalizzata all’usura, usura continuata e appropriazione indebita. Non è una bella cosa, se uno è Cardinale, soprattutto non lo è, se per anni uno ha tuonato contro l’usura, giù dal pulpito fino a terra. Ma dopo la giostra gira; e o si ha un passato poco pulito oppure si viene sistemati non soltanto perché non si faceva parte della combriccola, ma anche perché si era contro? Vengo incaricato della perquisizione delle stanze del Cardinale per metterlo sotto protezione oppure perché sono conosciuto come mangiapreti? Vogliono smontare lui o me? Queste sono le domande e, dal momento che, come sempre, non sono decisive, sono molto italiane. Come se ne avessimo bisogno come aria per vivere e così è soltanto un dubbio che porta alla morte: questo non decidere, questo bilico, questo eterno altalenarsi, fino a quando, da entrambe parti si apre l’abisso, come sempre e allora: in ogni angolo morte e diavolo e tenebrae. E per questo, cari amici di un vecchio poliziotto, che da tempo non sa più ciò che é giusto (e ancora meno: ciò che é la giustizia), e non si può ricostruire seriamente, se io effettivamente corro il pericolo di essere scomunicato. Oppure se dovrò essere proclamato Santo. Entrambe le cose mi sarebbero sgradevoli. Molto. Ma immagino: non potrò farci niente in entrambi i casi."
“Aspettiamo." Totò ha detto questo più per sé che per noi.
Com’è finita poi con il Cardinale?”
"Da parte sua, ha accettato un rito abbreviato, nessun patteggiamento pubblico lungo, il tribunale lo ha di nuovo assolto con la condizionale. Nei giorni precedenti la sentenza, il cardinale si è ritirato in un monastero dei dintorni. Quando poi, dopo la pubblicazione della sentenza, è ritornato in città, la gente sulla strada lo ha applaudito. Era il 22 dicembre. Lo si è preso come un segno se non come un miracolo. Nelle ricevitorie del lotto della città, soprattutto, però, in quelle intorno al palazzo del Cardinale, si è preferito puntare su questi tre numeri: 15, 22 e 27. Secondo la cabala napoletana, il 15 sta per il Cardinale, il 22 per il giorno dell’assoluzione, il 27 per l’innocente. Così la gente che pensava che un usuraio potesse liberarla dal suo bisogno di denaro, pensò allora che uno assolto dall’usura potesse aiutarla a vincere, ma ci vuole sempre fede: nel Lotto, del quale uno, a sua volta, crede che gli faccia vincere nella vita, in quella vera. E così è tutta una questione di fede e quindi tutta una questione di superstizione."

Bussano. Due volte, brevi, ma risolute, e la porta già si apre: due donne piene di pacchi, e così necessariamente ci si bacia soltanto con un mezzo abbraccio, gli uomini si piegano in avanti, ciao, piacere, ah: il marinaio e così io vengo squadrato da quattr’occhi, marinaio, di che, penso e mi interrogo, perché devo fare la mia comparsa qui a strisce blu e bianche.
“Bene, bene, bene”, dice Angela, mettono i pacchi sul tavolo all’angolo, una confusione di scatole di scarpe ricoperte di carta d’alluminio e contenitori di plastica in  buste e borse di moda, “ditemi,  uomini: come state d’appetito? Oppure gli avvenimenti della storia mondiale ed il vostro preziosissimo contributo vi lasciano soltanto il tempo per bere?"
Ciro reagisce subito. “No, no."
Totò fa da secondo ed io scuoto la testa.
Angela ride, la giovane vicino a lei non fa una mossa.
“Allora vieni Sera, apparecchia."
Angela è una persona che si dà da fare di circa cinquant’anni, dignitosamente portati con  fascino. Provo con consigli professionali, ma non vado lontano. Sembra come se fosse abituata a lavorare con la testa e con le mani.
“E questa è Sera, mia figlia. In effetti l’ho battezzata come Serena, la Santa. Ma lei si fa chiamare Sera, la sera. E valli a capire  i giovani, non li si capisce affatto,  almeno  fino a quando già non vanno all’università."
“E dai mamma, smettila!”
Evidentemente innervosita, la giovane.
E sebbene io non possa fare proprio nulla, penso tuttavia (avevo fatto un cenno amichevole, ma riservato con la testa, che lasciava trapelare dei pensieri evidenti per entrambe, madre e figlia, le quali erano ben consapevoli della loro celata bellezza), sebbene io sia senza colpa, come un adolescente, faccio sì che Sera mi guardi di traverso da sopra le spalle uno sguardo storto, mentre spacchetta contro voglia il mangiare che emana un profumo splendido. Ed io tentenno nelle interpretazioni. Molto semplice: vecchio trombone: Non ci pensare più?
“Abbaiano”, dice Ciro “ma non mordono, Tschenett, non ti preoccupare. L’ho sperimentato."
“Sbirro di merda.”
“Lascialo stare, Sera. E te Ciro, non esagerare con i tuoi proverbi."
“Va bene, Sera. Ora mi calmo: Il mio capo mi considera un irrimediabile testa di cazzo e tu…”
“…. un servo incallito del sistema."
“Vedi”, dice Ciro, spostando due sedie vicino al tavolo, “Non posso aver fatto tutto sbagliato. Andiamo, sediamoci. Buon appetito."
E mentre annusiamo con curiosità piatti e contenitori e Sera si aggira per l’ufficio, mettendo il naso in ogni cosa che assomigli ad una carta d’ufficio, Angela si guarda nella stanza sfiduciata.
“Non hai messo a posto, Ciro, non è vero?”
“Ha un buon odore, dico, cercando di guadagnarmi la visuale di ciò che viene offerto. Il mio rispetto per la signora Angela cresce: pesce salato e fritto, parmigiane, friarielle, salsicce, con verdure di ogni sorta e: sfogliatelle e babà.
“No, non l’ho fatto. Significa in effetti: sì.”
“È pulito?”
“Sì”
“Ascolta…” Angela non si fa fregare facilmente, penso. “Sembro una vecchia rimbambita? Eh? Ti ho mai detto: prego prego, prendimi per il culo, possibilmente in presenza dei tuoi amici? E dai, Ciro…”
Gli si para davanti, mettendo le mani sui fianchi. “Qui c’è qualcosa che non va, Ciro."




Capitolo XIII
   
Coppiette, corrispondenti, pensionati esperti di tutte le questioni vitali, Piazza Municipio è in fermento. Una breve passeggiata per stimolare un discreto appetito prima di cena. In mezzo, nobilmente delimitate, le macchine di servizio blu delle autorità comunali, dei loro rappresentanti e sottocomandanti, un parcheggio di media grandezza al centro della piazza, ai cui margini, uomini abbronzati in vestiti scuri mandano avanti gli affari politici del giorno, dimenticati la decisione dell’amministrazione comunale, lo sai come funziona, il Consiglio comunale deve decidere, perché così sta scritto, ma significa in pratica che noi regoliamo la cosa tra amici, fammi fare, al massimo domani ti chiamo, fidati di me, sai bene quello che significhi per me, no? E ti abbiamo mai fregato?

    Svoltiamo su Via Medina, improvvisamente intorno a noi agitazione, una frenesia molto diversa dai disordini della giornata, non si può definire, ma la si avverte subito.
“Che succede?”, chiede Angela a Ciro.
    Lui si guarda intorno e poi prosegue in avanti, Sera, che ha accelerato il passo, segue dietro.
    Totò ed io cerchiamo di non perdere il contatto tra la folla, che sta diventando sempre più fitta.
    Poi ci fermiamo, come del resto gli altri, e guardiamo stupiti proprio l’entrata del Palazzo, dove, se fa fede l’insegna, si trova la Questura, rimaniamo fermi e vediamo: quindici, venti uomini, per nulla cenciosi, e messi in riga, uniti uno all’altro con le manette.
    E mentre mi sto interrogando su che cosa stia a significare, due omoni, dalle spalle larghe, da dietro in modo un po’ brutale mi spostano da parte, si fanno largo in avanti, allungano le mani, quasi in sincronia, continuando a camminare, da sotto le loro giacche si sfilano le manette dalla cintura,  si mettono in fila e si ammanettano.
    Non c’era bisogno di vedere la fondina della pistola, per realizzare in quell’istante con chi avessi a che fare.
    “Bravo”, dico, “Totò, vedi, è così che deve essere. La polizia si ingabbia da sola. E già qualcosa. E’ un bel quadretto”.
    “E come”, dice Totò”
    Ma è completamente distratto, si guarda intorno, cerca di trovare Ciro, che sta a un paio di passi da noi, ma che non si riesce a vedere, perché ci separano un paio di uomini, che stanno per accendere delle fiaccole, cosa, però, che non riesce bene, le fiaccole continuano a spegnersi, uno prende dalla mano dell’altro l’accendino, fammi fare, sbrigati, e non appena si intravede il viso di Ciro, vedo che parla con il suo vicino, rivolgendo contemporaneamente uno sguardo interrogativo ad Angela, che sta davanti a noi.
    L’atmosfera ora è chiaramente molto tesa, dalla moltitudine salgono grida di protesta, finalmente brucia una fiaccola, fiammeggia e fa fumo, un po’ più avanti compare un cartello, da una parte legato ancora all’asta, riesco a leggere Scandalo!.    
Finora non si sono visti uomini in uniforme. Ho, però, il sospetto che i giovani alla nostra destra non appartengano alla Caritas.
“Che paese di merda!”, grida un tizio.
Anch’io me ne sono uscito così un paio di volte, di tutto cuore. Non ero però rappresentante di un ente a tutela dell’ordine. Questa coincidenza mi sconvolge un po’.
“Mi trovo nel film sbagliato?”, dico a Totò. “Poliziotti ammanettati, che si scherniscono della nostra meravigliosa democrazia? Ma può essere davvero così? E se così non può essere, come deve essere allora?
“E lo chiedi a me?”, dice Totò
Poi nel frattempo tre fiaccole bruciano e cominciano a tirare, Ciro ce l’ha fatta, a farsi largo, con forza verso di noi.
“Hanno messo sei persone della squadra mobile in custodia cautelare”, dice “e due poliziotti della Questura”. Si indaga contro ottanta di loro. In seguito a questo fatto, i cari colleghi hanno occupato la Questura. Venite”.
E si spinge in avanti, senza vedere, se noi lo seguiamo. Ma Totò lo può fare, si fa strada con i gomiti, detto, fatto, io rimango dietro,  fedelmente, seguendo le tracce, fino a quando ci troviamo vicino ad Angela. La guardo con fare interrogativo.
“IL G8” dice, “Il vertice del G8. Non quello di Genova, quello è venuto un po’ dopo, a ridosso, ma ha la sua propria storia, il suo proprio dilemma*; parliamo qui del G8 napoletano, il nostro. Lotte di strada, risse, il solito. E adesso un piccolo dettaglio non trascurabile: secondo il magistrato inquirente, quelli della mobile ne hanno trascinato illegalmente in caserma a centinaia”.
“Pericolo di inquinamento delle prove”, dice Ciro, “per questo la custodia cautelare. ‘A giustizia piace, ma non a purtarla ‘ncuollo. La giustizia piace fino a quando non ti tocca”.
“Contro questo protestano ora i tuoi cosiddetti colleghi”, dice Angela e le si può leggere in viso che è arrabbiata, anche se, in mezzo a tutta la confusione, rimane notevolmente calma.
Da dietro si sente ora gridare, in modo insistente: “Fascisti, fascisti, fascisti”.
Mi giro e riesco a vedere un uomo sui quaranta, che alza il pugno, prima di essere accerchiato da un paio di giovani ed essere respinto, un groviglio di braccia che si agitano, rumori sordi, già non lo si sente più. E poi scopro Sera. Viene dall’altra parte, si lancia da dietro tra la moltitudine, è sorprendente quanta energia si nasconda nel suo corpo magro, e poi ce l’ha fatta, si è aperta un varco, va incontro alla fila di poliziotti, si ferma poco prima di loro, si mette davanti ad uno, gli grida in faccia (è la figlia di Angela, si è scelta il più grande, tenace), gli punta l’indice contro, come un coltello, e dice: “Aguzzino”. Fa un passo verso destra, punta l’indice: “Ti ho visto”. Passo verso destra, indice: “Coglione”, passo verso destra, indice: “Aguzzino”.
I poliziotti non si sono mossi. Non solo perché sono uniti l’uno all’altro con le manette. Il tono basso di Sera sembra averli confusi. Fino a quando due tra la folla, in abiti civili, che passavano molto inosservati, si lanciano su Sera, che subito si scaglia su di loro dando stivalate e tirando pugni, gridando, “fascisti di merda, servi del padrone”. Sono riusciti a immobilizzarla, in quell’istante, Angela scatta e molla un calcio contro il primo sullo stinco, Ciro dietro, prende uno per il braccio, gridando contro l’altro e improvvisamente è pace, i due lasciano Sera, che di nuovo li prende a calci. Ciro la ferma, la prende per la mano e va via, con Angela, tra la folla, che si apre davanti loro, Totò ed io li seguiamo, la situazione continua ad essere tranquilla e poi ce l’abbiamo fatta.




Capitolo XIV


Si va per le strade senza parlare, Sera davanti, a volte inciampa mentre cammina. Ciro e Angela dietro, Totò ed io come retroguardia. Quasi tutti quelli che incontriamo vanno nella direzione opposta; questa strana rivolta dei poliziotti si è, a quanto pare, propagata come un lampo per i condotti sotterranei della città. E adesso tutti vogliono vedere con i propri occhi.

Su Piazza Matteotti, sotto l’edificio postale di epoca fascista, che domina la piazza, Sera si guarda intorno senza un riferimento preciso.
    “Che cosa si permettono questi”, dice “che cosa pretendono questi maledetti fascisti di merda? prima picchiano la gente per strada, ricordati del mio occhio nero Angela, poi spediscono la celere nelle stanze di pronto soccorso degli ospedali e prendono chiunque, semplicemente chiunque sia venuto e deve farsi curare, chiunque non abbia compiuto gli ottanta o che se ne stia seduto in doppio petto; Vera, la mia amica, ha una cugina, che dalla Sicilia era venuta a trovarla in città, sono andate allora, non per dimostrare, una giornata in famiglia, a fare una passeggiata a Capodimonte, giocano con il cane, l’osso le si frattura, distorsione, gonfiore, ospedale, le due non sono ancora arrivate, che già vengono trascinate via dalla celere, caricate su una camionetta, fino in caserma, insieme a decine di altre persone, i loro i telefonini vengono sequestrati, l’avvocato non c’è, così ecco un colpo, una bastonata, grida e minacce, vi sistemiamo noi, comunisti di merda, tossicomani e poi, ancora, messi uno per uno, in una delle stanze piastrellate, e grida a parte, non si sente nulla, soltanto giù i pantaloni e la perquisizione personale, per le donne ci sono le donne fasciste, sono proprio loro, che progresso schifoso, un paio si devono piegare nude davanti alla porta del bagno, calci alle costole e vuoi un esempio molto eloquente, mettiamo anche che questa gente sia tutta composta di terroristi pericolosi, comprese Vera e sua cugina, prendiamo un ragazzo veramente bravo, così per caso, senza saperlo, questi sbirri di merda hanno messo dentro anche un giovane avvocato per bene, uno di buona famiglia, quando vedono il suo documento, se ne rendono conto, lo fanno avvicinare alla scrivania, si deve piegare in avanti, si becca uno schiaffo, avvocato d’o cazzo, può andare, tre volte è successo, la stessa cosa, andare al bagno, svestirsi, inginocchiarsi, rivestirsi, doveva aspettare fuori in ginocchio, cosa succedeva poi, un’altra perquisizione personale, Signor avvocato del cazzo, così é, non ci si ferma davanti quasi a nessuno, e si va avanti per ore e non sembra finire. E alla fine se ne è fuori: tutto viene dimenticato e superato, un paio di denunce dei nostri, di più non hanno osato, nessuno di quelli che è stato condotto in caserma è stato mai accusato, perché non si poteva accusarli di nulla e i procuratori indagano e noi pensiamo che di nuovo non succederà niente, come sempre, verrà tutto occultato in questo Paese e poi? Poi mettono una manciata di sbirri in custodia cautelare e che fanno gli altri sbirri di merda eh? Non gli rimane che scendere subito e direttamente in strada con le loro camicie stirate e ammanettarsi l’uno all’altro, poveri maiali maltrattai che non sono altro, protesta su protesta, scandalo su scandalo, non ci possono fare questo, questo no, dove ci troviamo allora? E’ vero, dove ci troviamo, ti chiedo, Ciro?”

Nel frattempo una manciata di persone si è riunita intorno a noi, Sera non ha avuto ancora il tempo di riprendere fiato che il primo già vuole provarci: “Senta, Signorina, nu saccio…”
    Ciro prende Sera sotto braccio e fa l’occhiolino ad Angela. “Andiamo”, dice, “prima che diventi un assembramento di popolo”.
    “Storta va, deritta vene; sempre storta nun po^ ghì” …., grida da dietro l’uomo del popolo, “se le cose vanno male, prima o poi si sistemeranno”.
    “Vedi, Ciro, eccoti le conseguenze”, dice Angela, “te e i tuoi proverbi napoletani. Adesso te li gridano dietro già per strada”.
    “Perché non me l’hai mai detto?”, chiede Ciro a Sera.
    Lei lo guarda per un attimo senza parole, quasi attonita, poi solleva entrambi i pugni e li batte contro il torace di Ciro. Lui la lascia fare, fino a quando non si calma.
    “Sbirro di merda”, dice Sera, quasi sollevata. “Sei uno sbirro di merda. dammi il tuo telefonino”.
    E mentre Sera, un po’ da parte, fa una telefonata, Ciro si gira verso di noi. “Difficile la vecchiaia”, dice.
    “Te”, dice Angela, “te sei in un’età difficile, caro mio”.
    “Ho un appuntamento”, dice Sera, porge il telefono a Ciro e scompare.

 




* Quanto qui sopra è riportato in corsivo
stà in italiano anche nella versione originale del romanzo.
Tanto per esser precisi.
Mi dicono che ci sarebbe un certo interesse 'scientifico'  verso il fatto.
Per me è di interesse letterario.
Niente a che fare con certi nazionalscemismi.



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Napule
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