Napule
Romanzo.
Haymon Verlag, 1995. Diogenes Taschenbuch, 2000
Traduzione di Maria Luce
Del Vecchio
Capitolo I
Partono ‘e bastimente
pe’ terre
assaje luntane*
(* Quanto in seguito è riportato
in corsivo
sta in italiano anche
nella versione originale del romanzo.)
I
mari del mondo sono diventati da tempo troppo lontani per Hefaistos.
Allora sposta a est delle Colonne d’Ercole i suoi giri sempre uguali,
che logorano le valvole, una sagoma molto sottile, come delle linee
tratteggiate casualmente, tra porti malandati, un
andirivieni, un
salire e scendere, Sfaks, Bari, Saida, Patrasso, Haifa, Smirne, Beirut,
Cagliari, Vassiliko, Trieste, Ajaccio, Salonicco, Istanbul, Binghasi,
Igoumenitsa, Ancona, Ismir, Dubrovnik, Tarabus, Famagusta, Rijeka,
Mersin, Napoli, un porto dopo l’altro e, alla lunga, si assomigliano
sempre di più, niente altro che un groviglio caotico di documenti
doganali, lingue, gru, tempi di riposo, impenetrabili capitanerie di
porto e incalcolabili mettersi sull’attenti, un caricare e scaricare,
un mettere a posto e uno smistamento di merci sempre nuove, rottami e
cerchioni, patate, rotoli di cavo, bidoni di formaggio, similpelle,
materassini, cerchioni leggeri, mandarini, uomini, macchine e, chi
avanza una tonnellata di grano e chi invece ne ha una in meno di
zucchero, chiama Hefasitos e lei segue il richiamo, percorrendo un
groviglio di rotte, in qualche luogo e, laddove manca il riso e le rose
appassiscono, i commercianti aspettano in porto e la cercano con gli
occhi, l’affare da qualche parte è già sul fax e il guadagno è in mano,
la merce deve ancora passare al cliente e l’acqua passare sotto la
chiglia, si gesticola su questo mercantile, quasi nessuno conosce più
di due parole dell’altro, una per la prua e una per la poppa, per la
vita di tutti i giorni è sufficiente, ci si può quindi insultare
amichevolmente e lanciare bestemmie, che, poi, come palloni di gomma
rimbalzano sul ponte, da qui a lì, raramente, difficile che si possa
capire, o addirittura prevedere, la loro direzione e così le
maledizioni si aggirano per la nave, come Hefaistos per il Mediterraneo
e, ciò che sembra senza scopo e confuso, segue un piano ben
architettato, scritto lontano sulla terra, ogni giorno nuovo, e, un
silenzioso richiamo raggiunge Hefaistos e lei fa ritorno.
Capitolo II
Di solito, una sacca da marinaio garantisce le poche cose di cui un
uomo in qualche modo sensato ha bisogno per vivere: un pugno di
sicurezza, due paia di calzini asciutti, una piccola dimora e così
tanta fortuna, da non dover più parlare di sfortuna. Di solito il mio
zaino dava affidamento. E allora, lo mettevo sulle spalle, alzavo un
po’ la spalla destra, in modo così da sistemarmelo sulla schiena,
facevo un cenno all’egiziano, abbottonavo la giacca sul petto e
scendevo da bordo.
Sirene, auto, freni, porte, grida. Ed io mi
trovo sdraiato sul pavimento, a pancia in giù, la mia sacca da marinaio
per metà aperta e per metà vicino a me, una o due scarpe sulla schiena,
la neve in bocca.
E così nevica a Napoli.
Fiocchi sottili,
leggeri. Girano vorticosamente nel vento di terra verso l’alto e verso
il basso, un gioco come un altro e ciononostante io penso: non c’è
spazio. Così come per te stesso.
Sputo, cerco di respirare e di
capire. Davanti a me, nello spazio ridotto tra la lanugine rarefatta e
bianca dell’asfalto e la lamiera blu dell’automobile, con le lettere
rosse ARABI, si muovono stivali e scarpe da ginnastica, dopo l’ottavo
paio ho smesso di contarli; quando poi sposto un po’ verso l’alto la
testa, vedo le mitragliatrici e i cappucci neri.
Poi uno stivale preme la mia testa di
nuovo contro la neve.
“Va bene”,
dico,…”ho capito”.
“E stai fermo!”
urla un tizio. “Non ti muovere”.
“Va bene”,
dico “faccio il bravo”.
E nemmeno mi risulta difficile.
Come
se una curiosità così piccola fosse già un peccato mortale. Come se uno
come me potesse vedere qualcosa, che poi un giorno potrà risultare
importante.
E a poco a poco mi sento bagnato ed ho freddo.
Da
sopra la nave mercantile provengono delle grida, bestemmie in più
lingue, Un nuovo paio di scarpe davanti al mio naso. Il destro continua
a girarsi verso il lato esterno. Un uomo nervoso. E ad alta voce:
“Avanti! In
marcia.”
Chiaro accento da italiano del Nord. Pianura Padana, polenta, perfidia,
tono tipico da Carabiniere.
“E fissatelo, questo
qui.”
Devo
quindi essere pure ammanettato. E sento già dei dolori alle
braccia e uno scatto, mi trafigge la carne, mi opprime la schiena e
toglie il respiro.
Avevo appena finito di pensare: Fa pure. Ho tempo. E già ne ho
abbastanza. Mi rimetto quindi a contare i fiocchi di neve.
Mi
ero messo in viaggio per Napoli perché era arrivato il momento. Perché
avevo trovato questo mercantile. Perché l’ avevo promesso ad un vecchio
amico. Perché un giorno ne avevo abbastanza di osservare dalla finestra
della mia dimora, il porto coperto di neve di Salonicco.
Non ci
avevo quindi pensato a lungo, quando il padrone di casa del Kafenion, a
margine del porto, mi aveva chiamato a telefono, un ciottolo
contro la finestra, come sempre, centro al primo lancio, “eh Tséne,
vieni giù, éla kato!”
“Così ci vediamo, sono contento.”
E domandando qua e là. “Quando parte una nave per Napoli?”
“Ne partirà una. Una partirà.”
Mi ero seduto e avevo ordinato un caffè.
E tre giorni dopo ero finito dall’egiziano, che con il suo mercantile
doveva fare scalo prima al Pireo e poi a Napoli.
E,
siccome Jorgos, l'oste del Kafenion Majestic era amico
dell’egiziano e mi aveva avuto per buoni quattro anni come vicino, ci
eravamo subito accordati.
“Nessun problema. Fatti solo trovare domani alle sei. Beviamo un’altra
volta il nostro metrio e poi partiamo.”
Il pomeriggio stesso avevo già pronta la mia sacca da marinaio.
Quando
sbarcammo a Salonicco, continuava a nevicava. Su tutta Atene una
tormenta di neve grigio scuro, il canale di Messina gorgogliava. Questo
gennaio del 2002, non prometteva nulla di buono per il
Mediterraneo. Ciononostante avevo pensato che il viaggio fosse un’idea
ragionevole.
Nel frattempo ho iniziato a pensarla in modo
completamente diverso. Le braccia mi sono diventate ormai livide e se
ne stanno come catene lungo il corpo, gli stivali continuano a passarmi
davanti marciando, arrivano poi tre cani. L’ultimo, un
meticcio
nero-grigio con parti visibili di uno schnauzer enorme, mi si avvicina
lentamente e mi annusa il viso.
Chiudo gli occhi e aspetto. Rimango
sdraiato immobile. Quando alla fine sono di nuovo solo, senza il piede
contro la mia schiena, un breve fischio mi aveva liberato, prendo
profondamente aria, così come me lo consente la mia gabbia toracica a
lungo pressata e cerco di dire “Ma
porca misera”.
Adesso
non bisogna continuare a maledire anche la propria sfortuna, troppo
dipende da lei, se non addirittura tutta la nostra vita, e una sfortuna
raramente viene da sola e allora, qualcuno dal nulla mi
urla: ”Tschenett”.
Questo, penso, non può davvero essere. Chi è che mi conosce già. E qui
poi.
“Fatelo alzare. E’ un
mio confidente.”
No,
penso e scuoto silenziosamente la testa, nei limiti del possibile,
questo no, amico mio. Da te non mi faccio chiamare confidente della
polizia. Da te no.
Così, vengo trascinato, un Carabiniere baffuto,
grosso quanto largo, mi mette in piedi, tremo e cerco di girare le mie
mani per cercare di non farmi lacerare del tutto i tendini dalle
manette, guardo il pavimento e dico: “Porta almeno il numero
quarantasette.”
Adesso saprò se non altro di che cosa sono accusato.
“Zitto”,
dice il Carabiniere.
Ed io rimango zitto. Guardo per terra.
Stiamo in ballo ed io non voglio essere un guastafeste. Oppure si è
troppo arrendevoli perché sono diventato vecchio?
Forse,
penso, ha però anche smesso di nevicare. Almeno per quel tanto che
riesco a vedere io. Forse c’è ancora un mondo dietro queste scarpe,
dietro questo porto.
E poi sento, come il nuovo arrivato mostra al Carabiniere il
suo documento d’identità, “Polizia
di Stato, ecco qua”,
dice il suo grado e il suo nome e, come lo invita gentilmente, con un
leggero tono di comando, tra l’altro, a togliermi le manette. Perché
ora mi vuole portare con sé, me, il suo confidente.
Mi giro in modo
tale che il Carabiniere non riesce ad arrivare alle manette, lui vuole
verso sinistra, io mi rigiro verso destra, lui si gira a destra, io a
sinistra.
“No”, dico, “Non sono il suo confidente, non lo conosco affatto, signor
Carabiniere. Ha visto bene il suo documento? Con tutti i farabutti che ci
sono in giro?"
Non mi prendi così facilmente. No, se devo essere il tuo confidente.
Il
Carabiniere è ora perplesso, guarda il poliziotto in modo
interrogativo, bestemmia a bassa voce e giocherella con le
manette aperte.
“Andiamo”,
dice il poliziotto con una voce, che non lascia più margine di manovra,
“andiamo”, afferra le chiavi trascinandosi dietro me e la mia sacca da
marinaio.
Capitolo III
Una
pasta sottile, morbida, con il bordo croccante. Dorata con parti
bruciacchiate, mozzarella, pomodori, un pò d’olio d’oliva, aromatica,
con sopra le foglie di basilico, niente altro che il mondo intero in un
piatto, fumante, eccezionalmente insieme in un’ armonia a tutto tondo.
“Penso”,
dico, “le gelate delle ultime settimane e la siccità degli ultimi mesi
hanno svuotato il mercato della verdura italiano, o almeno lo hanno
reso così inaccessibile a noi, come soltanto lo sono le borse dei
diamanti di Amsterdam.”
“Per questo siamo qui”, dice Totò, “Luccio sa, come si fa.”
“Non è che i pomodori mi vengono da quelle vasche piene di
soluzioni nutritive delle grigie serre olandesi….”
“Tschenett,
non metterti nei guai e non farti sentire dal padrone: ti manderebbe
subito all’inferno. Di sua mano. Non godresti neanche di un killer su
commissione. E ciò che significa, lo sai: Porcheria.”
“Allora”, dice Ciro, sollevando il bicchiere, “a noi. Tutt’ ’o lassato è perduto.
Ogni lasciata è persa.”
“Bel proverbio”, dico.
“Ci
si può”, dice Ciro, “trascorre la propria vita con questi proverbi. Si
può a volte perfino spiegarla con essi. In napoletano, nella lingua di
questa città, si riesce, se è il caso, a descrivere il mondo. Napule,
come diciamo noi, è la nostra città. L’altra, quest’altra Napoli è un
prodotto di scarto per il viaggiatore.”
E allora brindiamo a noi. Un aglianico dei dintorni. Scuro, terreno,
saporito.
Non
più di cinque minuti, era durato il nostro viaggio in Alfa Romeo, al
cui volante stava un uomo anziano che conosce bene le relazioni
napoletane, presentatomi da Totò come Ciro. Ciro mi fece cenno con la
testa, con fare non scortese.
“Allora…”, dico, “un collega?”
“Tuo sicuramente no. Non è un marinaio a terra, né un camionista
inattivo. Un mezzo fallito.”
“Sbirro?”
“Beh sì, uno come me. Mi hanno bandito nel lontano Brennero siberiano…”
“E
so anche come mai”. Un investigatore totalmente inaffidabile con un
debole irrefrenabile per la cannabis. Che inoltre vuole sempre avere
ragione, caparbio e testardo…”
“… e l’amico Ciro ha ricevuto dal
Capo della Polizia un ufficio al centro di Napoli, in cui, a parte i
topi, non c’è anima viva e, dove, a parte appuntire le matite, non c’è
quasi nulla da fare.”
“E dove si va ora?”, dico. “A fare un in interrogatorio di terzo grado?"
“Sì, dice Totò”, “è proprio l’ora per Luccio.”
“E facimmo ’e pizze!”
Ciro sembrava aver voglia di pizza. E la capacità di entusiasmarsi per
il mangiare.
Sono anch’io entusiasta. La margherita
di Luccio è una meraviglia, nella sua assoluta semplicità, fatta solo
con farina, acqua, lievito, olio, sale e aromi vari: mi sento
già
a casa. E’ così semplice. Dovunque. Ma non sempre. Ho già appurato, che
determinate acque non si addicono affatto alla preparazione della pasta
per la pizza, il perché non lo so, nessuno è riuscito a
spiegarmelo, nemmeno con un accenno, ipotesi, ipotesi, sì. Ma con le
ipotesi non si fa la pasta per pizza. Con il lievito è più semplice. I
lieviti funzionano o non funzionano. Naturalmente non ci se ne accorge
(io no). Eppure è così. Parliamo del quinto principio della
termodinamica. I lieviti e le loro gerarchie. Lieviti e ferri di
cavallo come portafortuna. Lieviti forti, di categoria più elevata.
Dell’intero sistema appunto. Sarebbe tutto ancora da scoprire. In
questa vita. E nella prossima.
“Bene”,
dice Totò e si pulisce le labbra dal vino, prima con la sinistra e poi
con la destra, lentamente con l’ampio dorso della mano, sulla sinistra
una striscia lilla, la destra pulisce per molto a vuoto e, come io lo
guardo, penso: in questi anni si è fatto vecchio ed io ancora di più.
Separati è più veloce che insieme?
“Allora…”,
dice Totò.
“Non cercare di scusarti”, dico. “Ciro, mi ha pubblicamente fatto
passare per il suo confidente.
Più che pubblicamente. Davanti a un Carabiniere.”
Ciro capisce al volo.
“Non per davvero. Accide
cchiù ’a lengua ca ’a spata. Uccidono
più le parole che la spada.”
”Che
volete”, dice Totò. “Eravate presenti. I signori dell’altro ministero
hanno organizzato una retata. O trovavano su questa nave mercantile
venti cinesi mezzi affamati, due bidoni di coca, o il fratello gemello
di Bin Laden: ci saranno delle noie. Il modo in cui si sono schierati,
fa capire che sapevano il fatto loro. E il Tschenett, in questo guaio,
di nuovo tra i piedi.”
“Per me fa lo stesso.”
“Per te forse, amico, lo so, Ma, mentre io sto nel bar del
tribunale davanti al mio caffè
e penso, che devo ancora telefonare alla Capitaneria di Porto per
appurare quando hai intenzioni di approdare con la tua nave mercantile,
te il Signore dei Mari del mondo, sento dell’Hefaistos e della
retata e vedo i due Carabinieri, dentro di me penso: sono
cinque
anni che non vedi Tschenett e tutto era tranquillo e andava benissimo,
lui sta in Grecia e che succede? La terra trema, i boschi bruciano, le
città soffocano sotto la neve, ma che significa, la Grecia è lontana e
in qualche modo la spunteranno con lui, così come ho fatto io per tutti
quegli anni, è questo che penso tra me e me, e sento questo e così
penso e dimmelo tu, Ciro, perché continuo ad essere così
stupido
e perché mia madre non mi ha soffocato subito quando, la notte in cui
sono nato, la parola Tschenett aleggiò come un fuoco minaccioso sul
Mare Tirreno e le vecchie donne del paese si riunirono in piazza di
corsa e digrignando i denti, mentre gli uomini afferrarono i loro
fucili, perché sono così stupido e mi trovo a pensare un’altra volta:
tiralo fuori da lì. Salvalo da se stesso, ancora una volta e di nuovo
forse inutilmente, sottrailo al suo ben meritato destino, due settimane
di custodia cautelare ed un giudice sordo, che da tempo ha smesso di
strappare dal sonno il difensore d’ufficio, complica soltanto le cose,
e le cose già non sono facili fuori nel mondo, come devono poi essere
in tribunale, dove tutto ha il suo corso con le toghe pesanti e per
Tschenett il corso consiste nella dannazione eterna delle tenebrae
aeternae, come mai allora telefoni a Ciro e gli chiedi gentilmente di
andare a prendere con te un amico al porto, portandoti un’auto di
servizio civile e quindi: Formulario numero 204 riga B, formulario 3
riga 21A e che altro ancora, ti fai dire dalla Capitaneria di Porto,
dove sarebbe ormeggiata questa nave della sfortuna, scendi dall’auto,
subito vieni raggiunto dall’orda divenuta furiosa del Ministero della
Difesa, non è la prima volta che un poliziotto venga ucciso calpestato
da un Carabiniere, tranquillamente senza troppe conseguenze, vedi uno
che giace schiacciato come una passera di mare nonostante la
stazza che è andato accumulando nel corso degli anni, cadaverico in
viso , bianco nella neve grigia, legato, impacchettato e perso, bene,
pensi, e vedi il Carabiniere che si erge su di lui e vedi il suo
sguardo interrogativo e la bocca aperta senza parole, bene, deve allora
ora funzionare lo stratagemma diciassette e al primo tentativo, e
quindi fuori il documento, che non autorizza a niente altro che ad un
pasto scontato alla mensa del congresso e, avanti con decisione e,
prima ancora che il Carabiniere possa riflettere, pensi e il nodo viene al pettine, inventi
la parola magica. Confidente.
E adesso dimmi: Che altro? Dimmelo tu.”
“Hai imparato a parlare in modo sciolto, Totò.”
“Non ho chiesto a te, Tschenett. Ciro?”
“Insomma.”
Ciro non sembra essere sicuro. Guarda dubbioso tra Totò e me da una
parte all’altra.
“Cari
amici”, dice Totò e fissa il bicchiere di vino, lui che in genere è
soprattutto un gran bevitore, uno che cerca la sfida, per meglio dire,
“Cari amici, ora che siamo qui fortunatamente riuniti…”
Mi prendo la
testa tra le mani. Ciro non fa una mossa. Totò trascina indietro
rumorosamente la sua sedia, si alza in piedi puntando le mani, come se
avesse qualcosa sulle spalle, solleva in aria il suo bicchiere. “Amici…”
E poi gli scappa una risata, mi abbraccia e dice: “E’ bello che tu sia
qui.”
“Raccontami, quello che fai a Napoli, Totò. Di me lo so. Ho un
appuntamento con te.”
“Molto onorato”, dice Totò.
“Bene."
“8th International Conference of the European Polices eccetera...”
“Come hai detto scusa?”
“Ottava
Conferenza Internazionale delle Autorità di Sicurezza sulla Criminalità
oltre Frontiera. Sviluppi e Problemi Futuri alla Luce dei Dati più
Recentii”,
“E così tu sei…
“...Invitato come esperto. Per così dire”, dice Totò
“Non dirai veramente”
“Dico davvero. Ma non è stata una mia idea. Ordini dall’alto. Messaggio
d’ufficio del comando di polizia Distretto
Nordest, divisione Relazioni esterne e ricerche scientifiche."
“E non ti opponi?”
“A volte, penso che in tempi come questi non si dovrebbe più pensare”
“E’ vero, dice Ciro, ridendo tra sé e sé. “E vero."
“Anche tu?”
Ciro fa soltanto un cenno con la testa. Un uomo calmo con il senso
dell’umorismo. Non è una brutta combinazione.
“Come
si è pensato ad una cosa simile?” Voglio andarci più a fondo. Adesso
voglio sentire di più della rapidissima ascesa da cometa di Totò
nell’aria rarefatta dei simposi di polizia.
“E’ semplice”, dice Totò
“Molto semplice”, dice Ciro.
I due giocano a pingpong. C’è da chiedersi, per inciso, come e quando
lo abbiano praticato. Me lo annoto.
“Questa
cosa qui”, dice Totò, “si chiama simposio, conferenza, congresso.
Incontro cabalistico, riunione per il caffè, non fa differenza, come
sempre, riunisce cinquanta persone attorno ad un tavolo.”
“Un cesso di gioco in un tavolo del genere”, dice Ciro tra sé.
Il fatto sembra toccarlo da vicino.
“Dunque
ci sediamo”, dice Totò “e ci guardiamo negli occhi. Rappresentanti di
polizia, tutori della legge, sociologi delle scuole di polizia, esperti
di finanza, un hacker completamente ricciuto, diventato completamente
buono, uno o l’altro agente segreto, mal camuffati. Tutto ciò che hanno
da offrire i cosiddetti sistemi di sicurezza europei?.
“E qual è il risultato?”, dico io.
“Niente”,
dice Ciro. “Nulla a parte la voce dell’interprete dagli auricolari.
Credetemi, sono da sempre nell’associazione e so muovermi. E’ soltanto
un alibi, una cosa spettrale. Non c’é da meravigliarsi di un Presidente
del Consiglio come datore di lavoro, nei cui confronti indagano o fanno
processi tre dei Paesi partecipanti al Congresso. Così, per
precauzione, si mandano soltanto i Totò e i Ciro. La nostra
polizia viene trascinata di conseguenza in rovina. Così é. Ma: A
chiagnere ‘nu morto so’ lacreme perze. A piangere un morto sono lacrime
perse."
Guardo Totò che continua a girare il suo caffè.
“Che si
ottiene, Tschenett? Si ottiene una settimana a Napoli per il poliziotto
che viene dal confine, dal Brennero al golfo. Sale riunioni eleganti,
classica vista sul mare, in un castello, che in tempi normali serve da
Museo Etnopreistorico. Visto così non è male."
Totò non sembra particolarmente contento.
“Il
museo è stato chiuso per due settimane”, dice Ciro, “cinque giorni alla
ricerca delle cimici. Tre unità dei colleghi napoletani sono
responsabili della protezione."
“Dopodiché non vi può succedere nulla”, dico
“Scherza pure, Tschenett”, dice Totò. “E’ impressionante. Uno spreco
totale per nulla. E noi stiamo in mezzo."
“Bisogna capire la logica”, dice Ciro.
“Basta che vieni e osservi”, dice Totò
“Chi io?” L’idea di andare a questa manifestazione strana, in mezzo al
preistorico, non mi piace affatto. “Come dovrei entrare?”
“Come mio confidente”
“Mai."
“Come mio consulente personale”
Ciro si alza. “Allora andiamo. Devo rimanere ancora un po’ in ufficio.
Ci incontriamo davanti a Castel dell’Ovo."
Totò annuisce. E rimango poi seduto da solo al tavolo.
“Che fai”
“Vengo”, dico.
Capitolo IV
Nun è ca dico: ‘O mare fa paura
Ma dico: ‘O mare sta
facendo ‘o mare
Qui
il mare ammazza il tufo e il tempo. Qui è sempre ieri e qui è sempre
domani. E da qualche parte, nelle volte interrate di questa fortezza,
da qualche parte, nei meandri di questo castello, è nascosto un uovo
d’oro*. E dietro ogni angolo, uno scheletro, sotto ogni arco della
porta un osso, su ogni gradino un cranio. Ne sono morti tanti, sono
morti tutti alla ricerca dell’uovo d’oro, abbandonati, rovinati, morti.
Quando vi aggirate nel castello con le vostre scarpe domenicali,
immaginatelo, quando con le vostre innamorate state sulla
balaustrata e osservate la marea, immaginatelo, quando
gettate lo
sguardo dai suoi merli , non immaginate nulla di tutto ciò. Questo
castello è lontanissimo da voi, come voi vi ci avvicinate. Questo
castello non sta affatto qui, questo mare non si infrange affatto qui,
questo castello sta in una terra maledetta, che voi non conoscete,
questo castello sta in un Paradiso che voi stessi non desiderate,
questo castello non c’é e questo castello è sempre stato qui. Ed io
sono soltanto un uomo povero e vecchio, sono soltanto uno che da tempo
si è lasciato dietro la vita, anzi più che la vita, la morte me la sono
già lasciata alle spalle, così come l’amore, la sofferenza e la
passione, davanti a me continua ad esserci soltanto questo castello e
il tufo e il mare. Riesco a sentire ogni vostro passo, riesco ad udire
ogni vostra parola, riesco a sentire ogni vostro sguardo, gridate di
giorno e gridate di notte, gridate quando ridete e gridate quando
cantate, gridate quando piangete e gridate quando vi baciate. Avete
paura di questo castello e avete paura di queste pietre e
avete
paura di questo mare. Io sono il guardiano di Castel dell’Ovo.
Capitolo V
“Come lo conosci, Ciro?”
“Una
storia vecchia”, dice Totò. “È stato il nostro insegnate più giovane
alla scuola di polizia, intorno ai trenta, allora. Lo chiamavamo ‘o prufessore. Ad
un certo punto spuntò fuori lui, come supplente di un ispettore che era
stato in malattia per un anno, il quale evidentemente provava
più gioia con i carciofi
del suo giardino che con noi. Eravamo in piedi sugli attenti in classe,
la porta si apri’ ed entrò questo napoletano strano e la pace finì. Da
quel momento, soltanto gli idioti rimasero sugli attenti.
“Un uomo piacevole, non agitato."
“E una buona forchetta. Andreste d’accordo.”
Come
se non avesse mai nevicato. Il sole splende sul Golfo di Napoli, si
erge sulle colline, l’asfalto è da tempo di nuovo polveroso. Se non
fosse il Vesuvio e la sua cappa di neve che arriva fino ai primi paesi,
da tempo diventati città, lingue bianche che leccano la terra; se
fuori, sul mare, le nuvole non si ergessero scure come un muro, non
crederei mai che, soltanto un paio di ore prima, giacevo a
terra
bagnato. Come se il mondo fosse un altro.
“E allora Totò?”
“Ordinaria
amministrazione. Tutto come prima.”
“E ciò significa?”
“Da
molto tempo mi sono stufato del lavoro al Brennero, da tempo non so
neanche più come mai sono diventato poliziotto. Aspetto solo
l’occasione per dare le dimissioni.”
“L’occasione? Da quanti anni? Non lo pensi veramente.”
“Pretesto,
impulso, una cosa del genere. Se sapessi, cosa succede dopo, ce lo
saremo già lasciato alle spalle. Non riesco come te a
nascondermi
in qualche porto."
Alle nostre spalle echeggia una voce che fa gli scongiuri. Mi giro: un
vecchio che parla al vento.
“Totò, hai una debolezza di carattere di fondo. Non sopporti il non
fare nulla."
“Male. Hai vissuto troppo tempo al nord”
“Lo puoi sempre imparare di nuovo.”
“Forse, quando si è arrivati alla terza età, come te."
“Per via di otto anni…”
“Tuttavia,
Tschenett. Ti rinchiudi da una parte, non ti fai né vedere né sentire,
fatta eccezione di una o due cartoline. E nessuno sa con che e di che
vivi."
“Non ho nulla da fare e mi basta.”
Ci sediamo su un
muro, dietro di noi Castel dell’Ovo, davanti a noi il Golfo di Napoli,
facciamo ciondolare i piedi come i giovani e guardiamo il mare, come se
là non esistesse altro. Il vecchio è scomparso borbottando dietro al
muro.
“E se avessi bisogno ancora di un paio di dracme, farei
quello che faccio a volte: mi aggiro tra le lingue, traduco quindi a
volte nelle trattative che si svolgono nel porto, come italiano
di servizio, e non mi è ancora molto chiaro che cosa in effetti ci si
aspetti da me, quello tra le parole di investigatore o questo
tra
gli uomini, che a quanto pare ci si aspetta più da noi che da altri (Mi
chiedo se non sia sbagliato, un grande errore, che si nutre della vista
sulla Bellitalia?)
Oppure io
mi trovo ai tegami in una piccola ouzerie. Dopo che ho mangiato lì per
anni, senza lamentarmi, anzi: a volte molto contento, si pretende da me
subito i piatti più semplici e allora il cuoco può ricorrere
al
bouzouki e gli ospiti ciononostante non muoiono di fame. Le cose si
risolvono da sé. Una vita fattibile."
Una nuvola si è
impigliata sul Vesuvio, il vento soffia su di lei con forza e la porta
verso la bandiera. Un piccolo imbroglio. La montagna non riprende a
fumare*.
“Ti ricordi l’anziano di Brindisi?. Quello con tanti nomi?
Krassimir, Bashkim, Khaled, Jorgos, Cosmo, Demetrio, Agesilao, Francis,
Michail Petrowitsch, Nilo. Non abbiamo mai saputo come si chiamasse in
realtà, finora non conosco il suo vero nome. Non so esattamente di che
cosa e per che cosa vive. Non so neanche se vive ancora, nella sua
stanza d’albergo al porto di Brindisi. So, però, che continuo a stare
nel suo appartamento a Salonicco, sotto un tetto,
direttamente
sul porto, due metri quadrati pieni e una vista stupenda, un punto di
osservazione tra colombi e gatti come tra cielo e terra e per Dio, non
sono quei gatti grassi del nord, non sono quelle bestie rotonde,
odiose, bensì esseri che si arrampicano rognosi feroci e magri che
sembrano vivere nella propria città."
“Napoli è piena di questi gatti."
“Per questo sono qui, Totò.”
“Grazie, Tschenett. Bel complimento."
“Ecco che viene Ciro.”
E
ha fretta. Rema con le mani lungo il corpo, come se lottasse contro il
vento, quando non ce n’é; la parte superiore del corpo leggermente
piegata in avanti e viene verso di noi, nessuna parola, nessun segno,
mentre entrambi lo guardiamo mentre percorre la strada lungo l’acqua.
“È
arrabbiato”, dice Totò. “Mi ricordo di un giorno in cui Ciro, proprio
con questo passo, entrò in classe. Era un po’ più magro allora, ma
l’atteggiamento era lo stesso. Era il giorno della strage di Piazza
Fontana, del giorno in cui una bomba nella Banca Nazionale
dell’Agricoltura dilaniò sedici persone, ferendone ottanta.
Ufficialmente per la polizia doveva trattarsi degli anarchici. Ciro si
mise in piedi davanti a noi, prendendo fiato tutto insieme e poi calmo,
quasi in modo impercettibile: ‘Ve lo dico io: Sono stati i fascisti. E
noi li copriamo’. Poi si sedette e parlò, senza punti né virgole e
documenti, per un’ora, di tecniche di sorveglianza. Una materia arida,
non sensazionale che non preannunciava nulla di buono per il futuro, a
parte stanchezza, noia, piedi gonfi e orecchie congelate. Molto diverso
da quello che noi abbiamo appreso dai film. Ma Piazza Fontana
era
lì e Piazza Fontana rimase lì."
“C’era già qualcosa, un paio di mesi fa…”
“Sì.
Una Corte d’Assise, infine, trent’anni dopo, ha deciso, che sì erano
stati i fascisti. E che sono stati coperti per tutti gli anni dalle
nostre polizie, dai diversi e sempre messi a nuovo servizi segreti e
dagli amici d’oltremare. Chi si avvicinava troppo a loro, veniva
dirottato in altra direzione. Piste false, prove sparite, persone morte
all’improvviso.”
“E Ciro?”
“Se mi chiedi se è stato il giorno in
cui il suo cuore di poliziotto ha fatto un salto. Negli ultimi
trent’anni è successo abbastanza per ampliare ancora di più il divario
tra lui e la sua polizia. Piazza Fontana è la sua ferita aperta. Ma lui
ne parla raramente. E da tempo ha l’artrite alle ginocchia.”
“Ciao, Ciro. Che c’è di nuovo?”
“Addò vaje truove guaje.
Dove vado trovo guai." Ciro sembra essere pieno di questi detti. Almeno
uno per ogni situazione della vita. E l’attuale non sembra garbargli
particolarmente.
Sta in piedi davanti a noi, cerca nel fondo delle
sue tasche dei pantaloni e guarda il mare, come se ci fosse qualcosa
per lui da vedere, quando per noi tutti c’è soltanto acqua calma, onde
tranquille, nel miglior caso il ricordo dei viaggi. (E per vecchi
marinai come noi, il ricordo, che fa venire i brividi, del Mare del
Nord ghiacciato; è passato molto tempo ed è lontano in questo momento.
E poi il sole dell’inverno riscalda troppo).
“Addò vaje truove guaje.”
Lo ripete lentamente e canticchiando. Totò diventa nervoso, fatto che,
come già dieci anni fa, si evince da come, a bocca aperta, cerchi la
prima parola. “È…”
Ciro scuote subito la testa.
Totò mi guarda,
io lo guardo e pensiamo: Che succede? Restiamo in piedi e prendiamo
anche noi a fissare il mare. Ma non c’è nulla. Nulla che ci possa
venire in aiuto.
Allora aspettiamo.
E allora Ciro tira fuori le
mani dai pantaloni, spuntano dalla mano destra, che guardava il
pavimento, l’indice e il mignolo (il medio, l’anulare e il pollice
erano stretti sul pugno della mano) e fa le corna, il
rimedio magico antichissimo per scongiurare il malocchio, la jettatura,
allontanare da sé disgrazia e sfortuna, si gira, Ciro, già mezzo
risollevato e si appoggia poi vicino a noi sul muretto. Si
tira
il lobo delle orecchie e comincia a parlare, davanti a sé.
“Sono nel mio ufficio, tu lo conosci”, dice. “Avevo da fare ancora per
poco. Nulla di particolare."
Lobo delle orecchie.
“M’hanno messo ‘o gallo.”
Lobo dell’orecchio.
Gli hanno messo un gallo in ufficio. Decapitato.
“Era ancora caldo. A quanto pare lo hanno portato via ancora vivo.”
Lentamente immagino quello che Ciro vede fuori nel golfo.
“Chi è stato?”, dice Totò.
Ciro
solleva un po’ le spalle. Si tira il lobo dell’orecchio, ora anche la
punta del naso. Come se qualcuno lo stesse sempre a imbrogliare. “Non
lo so. Ma lo dovrò scoprire. E in fretta.”
“E tu dici che non stai lavorando a nessun caso….”
“No,
a niente, Totò. Veramente no. Ma chissà. In questa città si ha sempre a
che fare con qualcosa. Che si voglia o meno. È come nei corridoi
sotterranei, è tutto collegato con tutto, qui sbatti contro una pietra
da pavimentazione e lì crolla un palazzo. Napule per l’appunto.” .
Me
li guardo entrambi. Anche tra di loro sembrano esservi come dei segreti
canali di comunicazione: due poliziotti italiani con
anzianità di
servizio. Anche se Totò è più giovane di circa quindici anni.
“E adesso…”, dice Totò. Emerge il sistematico che è in lui.
“…prima di tutto denuncio il furto della mia auto di servizio."
“Come hai detto?”
“Ma
sì. Sono di ritorno dal mio ufficio, sulla strada…….e non c’è più.
Adesso cerco di procurarcene una nuova. Alla mia età non voglio mica
diventare un pedone.”
Si preoccupa. In ogni modo, anche la mia sacca da marinaio è sparita.
Prende il suo telefonino,
compone un numero e va avanti e indietro davanti a noi, mentre parla.
“Come stai?”, dice Totò. Conosce il mio problema, quello che riguarda i
pennuti.
“Bene”, dico. “Eccetto la sacca da marinaio. Senza non si ha nulla
nella vita."
“Tu hai però me”, dice Totò. Ed io annuisco, rassegnato al mio destino.
“Va bene”,
dice Ciro e sembra di nuovo aver ripreso forza.
“Adesso
per prima cosa andiamo a questa conferenza. Proprio come se nulla
fosse. Tre uomini inutili attorno ad un tavolo inutile."
E,
nell’andare a Castel dell’Ovo, aggiunge: “Una buona idea: Forse è stato
anche il capo della polizia a desiderare che io con i miei cinquantotto
anni andassi finalmente in pensione. Fuori dai coglioni,
rompicoglioni."
Capitolo VI
Lentamente
per la strada rocciosa fino al castello, rimasto a corto di fiato per
alcuni secondi e uno non sa: é la strada ad essere corta o la vista ad
essere lunga.
E poi davanti ad un Carabiniere in uniforme, senza
fare commenti; fatto che ogni volta mi costa una mezza violenza su me
stesso, questa arma,
come la chiamano coloro che la amano, è troppo
irreale, nel vestire e nel modo di pensare. E davanti ai Carabinieri in
abiti civili, nei quali l’uniforme si riconoscerebbe anche in costume
da bagno.
Pensare che in questo Castel dell’Ovo ci sia un Museo di
Etnopreistoria e che questo museo attualmente ospiti una Conferenza
Internazionale su Qualcosa come l’Oltrefrontiera, mi fa per un attimo
inciampare.
“Avanti amico”,
dice Totò, facendomi l’occhiolino in
segno di incoraggiamento, nella sua astuzia godereccia, “avanti, Amico,
non abbandonarmi.”
E poi davanti ai poliziotti in uniforme, senza
fare commenti. E, davanti ai poliziotti in abiti civili. Totò annuisce
in segno di saluto e anch’io faccio lo stesso.
Poi il tavolo del
ricevimento, tre giovani poliziotte e un giovane esemplare maschile,
rossi in viso allineati e freschi di phon, dietro cumuli di documenti e
liste lunghe pagine e pagine, in cui con zelo rovistano, protetti da
spalle larghe, con gli auricolari in testa, le mani incrociate sul
sesso; dove sono gli occhiali da sole? Penso, dove? Resto
quasi
inorridito, fino a quando non vedo infine i quattro all’entrata della
sala: pure loro con gli occhiali, e già siamo tranquilli e la
domanda viene repressa, Totò mi prende sotto braccio, trascinandomi,
fin proprio davanti allo spigolo del tavolo.
“Buon giorno.
Il documento e gli atti della riunione per i colleghi, prego.
Finalmente è arrivato.”
Mi guarda con fare di rimprovero.
“Sempre
così, quando questi milanesi arrivano troppo tardi, danno la colpa alla
nebbia. E’ sempre la vecchia storia: niente treno, niente
volo,
niente automobile. Come se per questi milanesi, la nebbia fosse di
cemento per i bunker atomici. E’ solo arroganza da nordisti.”
Totò parla il suo pugliese stretto, la lingua del sud di suo nonno,
che, per quanto ne so io, ha imparato per la prima volta all’epoca del
servizio militare.
“Pensano sempre che noi qui nel Sud siamo capaci solo di rubare gli
orologi e non di portarli”.
La giovane poliziotta rimane così freddamente impassibile che io quasi
vedo il suo paese lucidato a specchio sulle propaggini collinose del
nord della Pianura Padana.
“Cognome e nome."
“LoPiccolo. Adriano LoPiccolo. Senza
rango.”
E Totò sfoggia uno dei suoi sorrisi più intriganti.
E’ un agente segreto, signorina collega. Così segreto che può
permettersi questo nome stupido.
Adriano il Piccolo: Ha mai sentito una cosa così divertente?
(Sì,
Pipino il Grande). Che può diventare uno così nella vita? A
parte
uno sterminatore di popoli o un assicuratore da quattro soldi?
“LoPiccolo, LoPiccolo, LoPiccolo…”
Scorre la lista con le dita leggermente smaltate di rosa.
“Non risulta.”
Totò alza la testa, sta fermo decimi di secondo densi di significato e
abbassa la testa fino al petto.
“Capito."
Adesso anch’io annuisco . Con il mio viso inespressivo.
Rimaniamo allora calmi e aspettiamo.
“Allora?”, dice la giovane dama, “allora…”
Totò allarga le braccia in modo eloquente.
“Magari."
Si vede che sta pensando.
Le diamo impassibili tempo e spazio.
“Magari…”
Si legge dai suoi occhi e poi lentamente in viso: Forse è così segreto,
che può permettersi di non potersi permettere un nome.
Guarda Totò con fare interrogativo.
Lui annuisce in silenzio.
Io sbatto leggermente le palpebre.
Mi rendo conto come è semplice essere in un certo qual modo importante
e segreto a questo mondo. Ogni parola che dici, ti fa essere più
piccolo. Ogni suono che emetti, ti rimpicciolisce. Ogni esclamazione ti
tradisce. Il parlare uccide. Le parole sabotano. E: Risposte mai. Fai
al massimo delle domande. E lasciale a metà. Lasciale da sole,
abbandonate, bisognose di aiuto. Porgile a metà . Voilà.
Oppure fai come Totò: Parla senza prendere fiato, senza punti né
virgole. Stesso risultato. Voilà.
“Arrivederci."
E via.
Capitolo VII
Il
tavolo rotondo di Ciro é in realtà un ovale lungo fatto di
un’impiallacciatura della serie QUI SI DISCUTE DI COSE DI MASSIMA
IMPORTANZA, MA COSI’ CARA NON DEVE POI ESSERE, posizionato in diagonale
in una stanza appariscente, siamo seduti in fila duri come l’acciaio;
vestiti elegantemente tutti di scuro (sono contento della mia
giacca grigia, il cui grigio qui è diventato ancora più grigio; il
pullover rosso di Ciro non me lo sarei mai potuto permettere: sarei
stato scoperto nel giro di pochi secondi. Indossa il rosso come
un’onorificenza, conferitagli da un impero tramontato e nel frattempo
quasi totalmente dimenticato), sulle teste diligentemente gli
auricolari e le voci dell’interprete, i più audaci si sono attaccati un
microfono dietro l’orecchio, ne conto quattro di loro, dalla mia
poltrona: sto seduto come se stessi alla finestra della mia casa sul
porto di Salonicco, curioso, non partecipe, al posto di osservazione.
ALLA
COMMISSIONE EUROPEA E’ STATO DA POCO CONSEGNATO IL PROGETTO “EUROSHORE.
PROTECTING THE EU FINANCIAL SYSTEM FROM THE EXPLOITATION OF FINANCIAL
CENTRES AND OFFSHORE FACILITIES BY ORGANISED CRIME”, FINANZIATO NEL
1998 DAL PROGRAMMA FALCONE DELLA COMMISSIONE EUROPEA E REALIZZATO DAL
CERTI (PROFESSORI UCKMAR E MARINO), IN COLLABORAZIONE CON
TRANSCRIME/CENTRO INTERDIPARTIMENTALE DI RICERCA SULLA CRIMINALITA’
TRANSNAZIONALE DELL’UNIVERSITA’ DI TRENTO).
Eccetera. E così via. Non formulano frasi, ma eternità nei microfoni.
Ed eternità mi giungono dall’auricolare nell’orecchio
CORRUPTIE-ACTIVITEITEN
ZIJN IN STRIJD MET DE BEGINSELEN VAN NIET-DISCRIMINATIE EN VAN VRIJE
CONCURRENTIE DIE OP DE INTERNE EUROPESE MARKT WORDEN GEHANTEERD OM HET
VRIJE VERKEER VAN GOEDEREN EN DIENSTEN TE WAARBORGEN
quando io
ero piccolo, diciamo avevo circa cinque anni , mi inseguì un cane per
strada. E fu la prima volta nella mia vita. Mi è capitato poi spesso
nel corso degli anni, a nulla ero così poco preparato. Sbucò allora
questo cane. Per me dalle viscere dell’inferno. Una bestiaccia nera,
con il pelo a ciocche bagnate. Effettivamente nulla a cui uno potrebbe
sopravvivere. Così imparai a fare il morto
SE VOLESSIMO SAPERE
IN CHE COSA CONSISTE LA MINACCIA, DOVE SONO I PERICOLI CHE CORRIAMO NOI
IN EUROPA A CAUSA DELLA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA , POI MI SEMBRA
l’altro
animale, davanti al quale io sono fuggito, annaspante, era una mucca.
Questa mucca zoppicava con la zampa posteriore destra, allora non
sapevo, anche adesso non lo so, che cosa le fosse capitato. Il fatto è
che la mucca, che aveva uno di quei nomi con cui le donne non vogliono
più farsi chiamare, la mucca al mattino, nell’andare dalla stalla al
pascolo, che io per pura coincidenza (perché stavo andando
effettivamente troppo presto al lavoro, che allora consisteva nel
girare per tutta la santa mattina la polenta nel paiolo di rame sul
fuoco, fino a quando il Capo dello Stato, a piedi e con le scarpe da
montagna, perché era stato un partigiano e quindi apprezzava il lusso
delle scarpe da montagna funzionali e quello della polenta fresca, a
mezzogiorno suonato, ritrovava le forze intorno al tavolo della malga)
per pura coincidenza riuscì a vedere come le mucche se ne andavano
sull’erba bagnata del mattino: non era un bel quadro per occhi molto
assonnati (soltanto il turista è riposato al mattino), e
questa
mucca, ancora zoppicante, mi passò davanti con quella chiazza sul
collo: e la sera lo stesso. Così ci si incontra. Mentre andavo in
discoteca (si è ancora giovani e la strada a piedi la accettiamo di
buon grado come biglietto d’ingresso), si abbatte un fulmine. Esplode.
Soltanto che adesso la mucca pensa: sono stato io. E mi carica
KORRUPTION
FORSTÅS I ALMINDELIGHED MISBRUG AF MAGT ELLER ANDRE UREGELMÆSSIGHEDER
I BESLUTNINGSPROCESSEN FORANLEDIGET AF EN UTILBØRLIG TILSKYNDELSE ELLER
GEVINST. DOG BETRAGTES IKKE ALLE DE FORSKELLIGE FORMER, KORRUPTION KAN
ANTAGE, SOM FORBRYDELSER
il penultimo animale che mi voleva
fare la pelle (forse perché mi ero ingoiato la spina) è stato un pesce.
Per più di un’ora lo avevo aggattonato, lo avevo avvolto piano piano in
cappi sempre più stretti, lo avevo guardato negli occhi, e
poi mi
ero rivolto per gioco verso un altro, freddamente avevo girato le
spalle al mio pesce e guadagnato così la sua attenzione.
DIE
PERSPEKTIVE DER DEFIZITE IN DER BEKAEMPFUNG DER ORGANISIERTEN
KRIMINALITAET DARZUSTELLEN. DIE ZU WUERDIGENDEN PROBLEMFELDER KOENNEN
DABEI IM RAHMEN MEINES BEITRAGES NUR BEISPIELHAFT WERDEN. ICH WERDE MICH
infine
lo acchiappai: entrambi eravamo stanchi del gioco. Aftò to psaràki. E
la venditrice di pesce mi annuì elogiandomi: bella scelta, giovanotto.
E’ la strada che faccio ogni giorno tra i basàri di Salonicco; prima la
doppia fila dei banchi del pesce nei passaggi più stretti del vecchio
capannone, poi le traverse, più ampie, anche più rumorose, i mucchi di
pesce più grandi, montagne.
Guardo a sinistra, guardo a destra,
rimanendo in piedi, avvicinandomi, ascoltando soltanto a
mezzo
orecchi tutti gli elogi come una qualche musica di sottofondo, gli
occhi si spostano quindi da una parte all’altra sull’infinito accumulo
di corpi, occhio dopo occhio, fino alla terza passata (nel frattempo i
prezzi capitolano, il compratore affrettato non si deve aspettare
generosità: a ragione. La fretta qui é tollerata meno che
altrove), al terzo giro il pesce, che inizialmente ti aveva già
sorriso, annuisce sommessamente e con le guance paffute dice:
Sissignore! E allora la psaroù ti loda, accetta di subire la perdita,
te lo dà da amica ad un prezzo tondo in dracme e te lo mette in mano.
Adesso è tuo. Poi la camminata tra gli ortaggi. Sedano, carota,
cipollina, prezzemolo, pomodoro e chortàrika (una volta i crauti dei
poveri e quindi dal sapore molto amaro). Su questo letto sta
bene il pesce nella sua pentola, il timo in pancia, mantenuto
umido con il sugo di cottura del pesce, l’olio d’oliva ed una spruzzata
di ouzo, si aggiunge aglio, pepe e una foglia di alloro. Assolutamente
niente sale. E quando tu lo fai nuotare nel piatto in un mestolo di
questo decotto, questi ti guarda di nuovo sorridendo.
DELLE
AZIONI E DEGLI STRUMENTI DIRETTI ALLA “PREVENZIONE DELLA CRIMINALITÀ’
ORGANIZZATA”, SETTORE NEL QUALE SONO IMPEGNATI RICERCATORI, OPERATORI
DI POLIZIA E GIUSTIZIA, AUTORITÀ LOCALI E IMPRESE. SI TRATTA DI UN
SETTORE CHE SI SVILUPPA ATTRAVERSO UN’IDEA GIUSTA: QUELLA DI
mi sarei però quasi soffocato con una spina. Per la prima volta nella
mia vita. E’ stata una lotta equa.
RITENERE
POSSIBILE PREVENIRE LO SVILUPPO DELLE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI
RIDUCENDO LE OPPORTUNITÀ DEI LORO AFFARI CRIMINALI, ATTRAVERSO UN
SISTEMA DI DEREGOLAZIONE O RIREGOLAZIONE DEI “MERCATI”, IN CUI
intanto: da dove viene questa fame improvvisa? (Totò sbuffa piano. Come
se avesse annusato qualcosa)
DURING THE HIGH LEVEL CONFERENCE ON CRIME PREVENTION IN PRAIA DA
FALÉSIA (ALGARVE)
non
smette. Una metà del tavolo sembra morta, l’altra ha lo sguardo fisso
nel vuoto. E Ciro resta per tutto il tempo seduto come inchiodato, gli
auricolari davanti a sé sul tavolo, l’auricolare sinistro nel pugno
sinistro, l’auricolare destro nel pugno destro, ben sigillati come se
dovesse sottrarsi a qualcosa di pericoloso, sguardo in avanti, senza
fare mosse: un rabdomante senza successo. Il gallo con la testa mozzata
deve frullargli ancora in testa.
DURANTE LOS ÚLTIMOS AÑOS SE
HAN CELEBRADO VARIAS CONFERENCIAS Y SEMINARIOS CON EL FIN DE DEFINR UNA
ESTRATEGIA EUROPEA CONTRA LA DELINCUENCIA, CONCRETAMENTE EN ESTOCOLMO
E le galline. Hanno inchiodato alle tavole le galline di Berta.
SI INCONTRANO DOMANDA E
OFFERTA DI SERVIZI
il
motivo ero stato io e il mio essere poco serio. Non me lo sono mai
potuto dimenticare. Berta, mai più vista da quattro anni, sentita una
volta per il solito San Silvestro, fallimento inesorabile,
non
c’è stato nulla da dire, come non c’è nulla da dire in una telefonata
del genere nei giorni di festa, a parte gli auguri, che,
telefonicamente, però, raramente hanno effetto, per il resto telefono
muto; Berta, la mia locandiera nei dodici anni tra traversate e
vagabondaggi, la mia locandiera nella pianura di montagna fredda e
umida, fuori mano, oscura, abbandonata, alla quale comunque ad un certo
punto passava ogni strada che percorrevo nei miei giri per l’Europa con
il camion, un brandello roccioso di terreno davanti alla casa, sul
quale un trattore trova appena posto e nella casa angusta,
chiusa
tra le rocce, la strada e il ruscello, costruita tegola su tegola da
suo fratello, la parete posteriore da allora un po’ obliqua, poco prima
che per sbaglio, e sbagli del genere non sono nulla di particolare, più
frequenti di quanto si pensi, per sbaglio quindi lo incorporassero
nelle fondamenta di un pilastro della seggiovia, nessuno dei turisti,
che da allora si fa trasportare sulla montagna fino alla prossima
bettola, sia d’estate sia d’inverno, si immagina che cosa si nasconda
sotto, l’anima sfortunata; così Berta era tornata nella casa anni fa in
questo luogo lontanissimo, e si era guadagnata da vivere, lavorando
inizialmente con un bar illegale, per un paio di vecchi contadini e
personaggi come te, Tschenett, che non possono passare senza non
prendere un bicchiere di rosso o di bianco dalla bottiglia da due litri
che, insieme alle galline e alla piccola pensione, che ogni
giorno si fa sempre più piccola, le basta per vivere, soprattutto
quando, negli anni fiorenti della giovinezza si é perduto tutto,
l’innamorato con un escursionista sulla parete sud del Tribulaun, e
come
succede ai turisti, quello cade dalla parete, mentre l’innamorato
rimane appeso alla fune, e così te come innamorata sei già vedova e
capisci che gli uomini se ne vanno sempre, in un modo o nell’altro e
quando cadono dalla parete. E questo basta per il resto della vita e
allora ti attacchi alle galline, e fino a quando con loro va tutto
bene, bisogna sopportare persino un Tschenett come te con la
sua
testa da eterno bambino.
ILLECITI. IN DIREZIONE DI UNA RIDUZIONE DELLE OPPORTUNITÀ CRIMINALI
e
così hanno inchiodato le galline di Berta alle tavole. Una ad una.
Tutte. Una per chiodo. Un paio si muovono ancora. E tutto per colpa
tua, Tschenett, è tutta una storia tua
LATITANTI AFFILIATI A SODALIZI DELINQUENZIALI DI TIPO MAFIOSO,
CATTURATI ALL’ESTERO, SIA DALLE NUMEROSE OPERAZIONI DI POLIZIA
e
poi vai nel gallinaio e guarda tu stesso, Tschenett. E’ questo che hai
detto, Berta. Senza emozioni. Da allora non più una parola a riguardo.
Ma io: Pagherete per questo, maiali. Ho detto. E ho pensato: Questa
grottesca magia vudù è stata pianificata in ogni dettaglio. E non
capivo perché: chi pianifica una cosa così nei dettagli, non paga. E
poi i tuoi passi, ed io: Berta?
Tschenett?
Mi dispiace. Te lo prometto, non succederà mai più.
E’ già successo.
Che
ne è delle nove galline e del gallo che ho trovato al mercato dai tuoi
clienti abituali? Riuniti e portati pezzo per pezzo sotto braccio nella
nuova casa?
Che deve esserne di loro, Tschenett? Sono galline. Fanno le uova. Il
gallo canta, a volte. E loro razzolano.
PAUSCHALEN VORWÜRFE, LIECHTENSTEIN SEI EIN IDEALER GELDWÄSCHEPLATZ,
SIND MIT SICHERHEIT UNBERECHTIGT UND
Capitolo X
Nell’ufficio
buio di Ciro c’é odore di vernice, fresca e umida. Anche di detersivi
forti. Là sotto, come per nascondersi temporaneamente dalle conquiste
della petrolchimica, permane ben consistente quell’odore segreto, per
nulla disposto a farsi cacciare dalla casa, così su due piedi.
Totò si guarda intorno e annusa.
“Sì”, dice Ciro. Si sente ancora. Ma solo se si sa, come era qui prima.
Sangue dappertutto. Sedetevi."
“E io non posso fare a meno di osservare attentamente la
sedia.
Ciro
sogghigna. “Non ti preoccupare, Tschenett: ho dato l’incarico a
esperti. Gente che una volta non si occupava di affari così puliti, ma
che era conosciuta per fare un lavoro pulito. Piccole misure per
reinserirsi nella nostra onorevolissima società."
Smetto di preoccuparmi.
“A proposito, Totò: Non ho raccontato nulla ad Angela della faccenda."
“Angela? E dov’è?”
“Viene
anche troppo presto”, Ciro guarda l’orologio. “Doveva in effetti già
essere qui. Voleva assolutamente vedere il nostro amico Tschenett."
Stai attento Tschenett.
L’ufficio di Ciro è un luogo che resta a lungo sinistro, fino a quando
non si varca la soglia.
Passi
per i vicoli della città vecchia, a sinistra, a destra, di nuovo a
destra, ti fai strada tra uomini e motori e te li godi, le lingue, gli
odori e la grande gioia, dopo vai sul retro, passi per il portone,
ti trovi nel cortile pallidamente illuminato del palazzo barocco della
città, piano per piano, ballatoi, abbelliti con ferro
battuto,
dietro i quali si innalzano le scale, un labirinto confuso di archi e
scale a chiocciola, pennacchi e balaustre, corone d’alloro di marmo
grigiastro, di uno stucco giallino che si sgretola; da fuori salgono i
vapori della strada, dalle abitazioni che vi si trovano, marito e
colorature, gonna e bambino piccolo, affamato e insonne, e sempre
dietro, e la parmigiana
di melanzane,
dietro questa finestra, ti viene fame, e la tentazione è sempre più
forte, di fermarsi là davanti, fino quando non si scodella e una mano
benevola ti porge un piatto… Proseguiamo però: il corridoio stretto e
buio, passiamo per la porta grigia, dopo questa porta pesante, di
ferro, a doppia mandata, un campanello, senza nome, rimasto appeso
all’intonaco solo per metà, sopra il videocitofono e Ciro gira per
aprire, una volta, due volte e fa un cenno, di seguirlo per un budello
in calcestruzzo, senza finestre, con la luce verde del neon, dopo i
colpi alla porta tutto silenzio di tomba e calmo e improvvisamente
senza anima viva, soltanto il forte eco dei passi, come colpi, non
metterti a correre, ora, e a respirare più in fretta, sempre dietro ai
due, e la seconda porta si apre da sola e da qualche parte giunge un
fischio ritmico, un segnale, fino a quando non si richiude: una rampa
grigia di cemento senza intonaco, su le scale ora, due piani, ansimante
dietro, la scala antincendio, finalmente arrivati, pavimento di marmo
chiaro, porte interne rivestite di materiale plastico degli anni ’60,
da nessuna parte una targhetta al campanello, ovunque nessuno, ovunque
nessun odore, ovunque nessun rumore, e Ciro dà ancora
mandate,
apre la porta, allarga le braccia e: “Prego”.
E se ti fermi a guardare, Ciro con fare interrogativo, ti dice: “Non
chiedere. E
dai, siediti."
Mi siedo.
“Ebbene sì. Ti vuole vedere, Tschenett. Il marinaio
greco dei ghiacci del nord: Angela ha un debole per i marinai. Per mio
rammarico. Sono dell’idea che l’unica debolezza che potrebbe
permettersi dovrei essere io. Ma si diventa buoni, con il tempo.”
“Proprio”, dice Totò, “quando si è fidanzati da tre anni e il fidanzato non è più
il più giovane."
“Giusto”, dice Totò e sorride.
“Angela”, dice Totò. “Angela è una donna meravigliosa. Quindi non ti
fare strane idee, Tschenett:”
“Dove siamo Ciro?”, dico io.
“Non cederà, Ciro”, dice Totò. “Lo conosco."
“Non sto bene in questa stanza”, dico io, “ e non a causa del pollo
macellato. Voglio capire, come mai."
“Che vuoi sapere?”
Ciro si è chinato dietro la sua scrivania e mostra una bottiglia di
vino bianco.
“Ma che casa è questa? E che strada abbiamo fatto?”
“Ad
un certo momento, quaranta anni fa, il Palazzo che originariamente
stava qui, è semplicemente crollato. Si dice che abbia sotterrato due
famiglie e mezza e le cinque capre che pascolavano nel cortile interno.
Non so. Per un paio di anni lo sfortunato cumulo di macerie é rimasto
lì, una ferita aperta, chi si trovava a passargli vicino, si faceva il
segno della croce oppure si proteggeva comunque dal male. Si sono
sentiti gli spiriti. E quelli, che lo sanno con precisione, raccontano,
che il Palazzo, é crollato perché doveva, perché stava lì. Perché qui,
in qualche punto del sottosuolo, centinaia di anni fa è successa una
qualche storia di sangue. Ci si può credere, ci si può non credere. Non
se ne esce comunque. Napoli avrebbe potuto vivere bene con queste
buche, c’era abituata, è abituata alle buche, al provvisorio, è
abituata alla metà, perché conosce il tutto. Poi sarebbero venuti dei
signori da Roma – mio Dio, io non c’ero, potrebbero essere venuti da
qualsiasi parte, per me dall’inferno di Tommaso d’Aquino, ma finora è
probabile che siano effettivamente venuti da Roma - e dopo, tutto è
andato molto veloce. Molto più veloce del consueto, sorprendentemente
veloce. Ciò ha sconvolto ancora di più la gente. Anche il fatto che qui
abbia costruito una famiglia del nord, almeno per alcune settimane,
fino a quando poi non hanno dovuto prendere anche un paio di
napoletani, finalmente, di notte il cantiere era costantemente rimasto
vuoto. In seguito, qualcosa è migliorato. E ad un certo punto è
comparsa la casa. Nessun napoletano voleva entrarci. Cosa che è venuta
a proposito per i signori della casa, signori in abiti scuri,
rappresentanti di impronunciabili uffici romani e procuratori di
buffonesche ditte americane. Parliamoci chiaro: il fiancheggiatore sud
della Nato, US-Headquarter-South-East, guerra fredda; qui c’era lavoro
per molti. E non poteva far male se i napoletani vi girassero intorno
(per la verità: alcuni ci hanno sputato davanti. Ogni giorno, per ogni
strada che portava al lavoro, dopo ogni caffè da Toni e prima di ogni
caffè da Pino. Dimmi, che c’eri anche te, dillo Totò. Ciro sorride,
quasi benevolmente, comunque in modo indulgente. Sì. Questo palazzo in
cemento era il segnale della vittoria, con il quale i napoletani
avevano da vivere. Lo hanno fatto. Ma non hanno dimenticato).
All’ultimo piano, se ancora vi interessa, all’ultimo piano ci sarebbe
un appartamento da un taglio pauroso, si parla di quattrocento metri
quadrati, si raccontano meraviglie di esso, quando, ad un certo punto,
dopo il crollo del muro e l’inizio della presunta nuova epoca, si è
trattato di decidere di che farne di questa casa fantasma,
rimasta nel frattempo vuota, anche se rimasta vuota naturalmente non
significa che anche il portiere la dovrebbe abbandonare. Da trent’anni
sta al suo posto, muto come una tomba, ho tentato, sperando che la sua
sventura gli potesse ridare la parola. Rapporto negativo: Il grande
passato impronunciabile lo fa essere fiero, a vederlo così
potrebbe essere napoletanissimo, invece è sardo, lo è stato, dopo tanti
anni, il cugino di un cugino di uno zio romano, così una volta si
andava per il mondo e quindi anche a Napoli, non
per niente
uno era uno dei grandi sardi di destra, e anche il grande di quelli di
sinistra, e per essere più precisi erano cugini, oppure no? E
soprattutto: sui sardi non è stato ancora detto nulla, si potrebbero
scrivere libri interi su di loro, e se io una volta non avessi più
nulla da fare, ma veramente più nulla, forse mi metterei a scrivere
libri."
Continua a cercare un cavatappi.
“Vi annoio”, dice Ciro, lo ha appena trovato.
Totò si stiracchia comodamente.
"Il
Tschenett sicuramente no, è proprio specializzato in queste storie
assurde. A volte ho il sospetto che il nostro Tschenett non possa
proprio vivere senza di esse. Che può essere anche un modo per non
accettare la vita da adulti."
“Verissimo”, dico.
“Più non si sa
di questo posto. A parte che debba esserci un ascensore segreto,
espresso dal sotterraneo al cielo, a volte mi sembra come se io lo
sentissi ronzare. Ma naturalmente sono stupidaggini belle e buone."
Totò si è procurato dei bicchieri.
“La
casa è quindi vuota. Soltanto me e il portiere. E quando la massima
carica di polizia di Napoli stava cercando un luogo in cui esiliarmi,
ha pensato a questo. Ufficialmente io dirigo un Ufficio per Compiti
Particolari. Vale a dire: Non li devo più scocciare sui miei
vecchi tempi. Per me va bene. In questo modo mi si lascia in pace.
“Va bene”, dice Totò, “dipende da come uno reagisce."
Ciro
ci versa da bere. Solleva il suo bicchiere. Si guarda intorno. Sembra
averci improvvisamente dimenticato, noi, il suo bicchiere e
il
mondo che sta dietro.
Guardo oltre Totò. Lui annuisce in modo rassicurante. E poi aspettiamo,
muti.
Mi
guardo intorno nell’ufficio con la coda dell’occhio. Un ammasso di
mobili orribili dei tardi anni settanta. Mobili di legno diventato
grigio. Due armadi porta documenti di metallo di colore verde-bluastro,
uno assicurato con una pesante catena. Un contenitore a rotelle,
ammaccato, come se fosse stato usato impropriamente per cose che non si
possono dire; una libreria stracarica. Senza occhiali non riesco a
leggere i dorsi (prima o poi ci vogliono gli occhiali, oppure no?
Bisogna prima abituare la testa.) Tende marroni, tirate su a metà. La
scrivania di Ciro, vuota ad eccezione di due quotidiani e di un paio di
cartine sottili, che non danno più un’idea di fresco. E dietro
l’angolo, come se provenisse da un altro mondo, come se fosse stato
lasciato dal vecchio Palazzo, che si erge dalle rovine, un tavolo da
cucina scuro con le zampe larghe di legno vecchio.
“Io credo che si veda dalla stanza: qui non succede più nulla
di decisivo."
Ciro ha però deciso ancora di parlare.
“Da
anni sono diventato, e niente affatto contro voglia, soltanto una sorta
di poliziotto ausiliario, che si occupa delle banalità della vita,
furfanti meschini e sfortunati, mercanti di cavalli, borsaioli,
imbroglioni. Per la verità non esiste più il delitto
capitale,
almeno da quando Andreotti è stato assolto, Berlusconi è
caduto
in prescrizione e un fascista o l’altro è al Governo. L’ordinamento
della nuova epoca ci rende superflui: Così superflui, che alla fine
hanno rinunciato a scomunicarmi.
“Come hai detto? Tu, il vecchio
professore e benemerito tutore dell’ordine…” Totò si diverte a parlare
trafelato, “uno come te…Ma che sei ancora in chiesa? Sancta
romana simplicitas”*
‘O prufessore
annuisce. “Il cardinale”,
dice
Ora tocca a noi guardarlo senza capire.
“Il
mio Cardinale mi ha perseguitato per tre anni”, dice Ciro. “Sebbene, se
la domanda la rivolgessi a lui, lui la vedrebbe esattamente
al
contrario. Per lo meno in parte. E con amorevole perdono. Come se ci
fosse qualcosa da perdonare. La cosa è iniziata quando un magistrato
inquirente delle zone vicine si è occupato di alcuni dei casi meno
significativi di usura: un’attività quotidiana per entrambe le parti
interessate. E per me, ho pensato, proprio il tipo di delinquenza che
meglio mi si confà. Un reato quotidiano. Un bel cambiamento rispetto ai
grandi reati. L’usura è antica come il mondo e questa città; é come se
lei avesse vissuto sempre dei suoi rapporti, come se, indipendentemente
da quando, il desiderio fosse stato sempre più grande del mondo, gli
occhi dello stomaco, il cavallo del sacco d’avena. Con l’usura abbiamo
imparato a vivere. E’ come se avessimo bisogno di lei per definire i
nostri limiti. In effetti, e a ben vedere, è l’usuraio che ti dice
quello che tu non puoi più fare, quello che non va più. Fino ad allora
ci hai creduto; adesso lo ascolti e sai che è finita. Per la prima
volta. Fino a quando non sei di nuovo pronto per un nuovo credito. E
così la vita va avanti. Tra speranze e strozzinaggio. Così si diventa
grandi. E così uno arriva, da solo e da decenni, alla prima auto. E
così, uno pensa, è questo un caso come un altro e si mette così
all’opera. E poi è tutto diverso. E chiaro. E improvvisamente
si
rimane come quello che voleva farsi il segno della croce e si cavò un
occhio. Iette pe se fa’
‘a croce e se cecai n’uocchio.
Improvvisamente, nelle proprie indagini, ci si imbatte nel proprietario
dell’ufficio e dignitario e il
cardinale,
il veneratissimo cardinale di Napoli, viene accusato dal magistrato
inquirente, che in una piccola città lavorava su piccoli
casi, di
una fatto grande: associazione
a delinquere finalizzata all’usura, usura continuata e appropriazione
indebita.
Non è una bella cosa, se uno è Cardinale, soprattutto non lo è, se per
anni uno ha tuonato contro l’usura, giù dal pulpito fino a terra. Ma
dopo la giostra gira; e o si ha un passato poco pulito oppure si viene
sistemati non soltanto perché non si faceva parte della combriccola, ma
anche perché si era contro? Vengo incaricato della perquisizione delle
stanze del Cardinale per metterlo sotto protezione oppure perché sono
conosciuto come mangiapreti? Vogliono smontare lui o me? Queste sono le
domande e, dal momento che, come sempre, non sono decisive, sono molto
italiane. Come se ne avessimo bisogno come aria per vivere e così è
soltanto un dubbio che porta alla morte: questo non decidere, questo bilico,
questo eterno altalenarsi, fino a quando, da entrambe parti si apre
l’abisso, come sempre e allora: in ogni angolo morte e diavolo e
tenebrae. E per questo, cari amici di un vecchio poliziotto, che da
tempo non sa più ciò che é giusto (e ancora meno: ciò che é la
giustizia), e non si può ricostruire seriamente, se io effettivamente
corro il pericolo di essere scomunicato. Oppure se dovrò essere
proclamato Santo. Entrambe le cose mi sarebbero sgradevoli. Molto. Ma
immagino: non potrò farci niente in entrambi i casi."
“Aspettiamo." Totò ha detto questo più per sé che per noi.
Com’è finita poi con il Cardinale?”
"Da
parte sua, ha accettato un rito abbreviato, nessun patteggiamento
pubblico lungo, il tribunale lo ha di nuovo assolto con la
condizionale. Nei giorni precedenti la sentenza, il cardinale si è
ritirato in un monastero dei dintorni. Quando poi, dopo la
pubblicazione della sentenza, è ritornato in città, la gente sulla
strada lo ha applaudito. Era il 22 dicembre. Lo si è preso come un
segno se non come un miracolo. Nelle ricevitorie del lotto della città,
soprattutto, però, in quelle intorno al palazzo del Cardinale, si è
preferito puntare su questi tre numeri: 15, 22 e 27. Secondo la cabala
napoletana, il 15 sta per il Cardinale, il 22 per il giorno
dell’assoluzione, il 27 per l’innocente. Così la gente che pensava che
un usuraio potesse liberarla dal suo bisogno di denaro, pensò allora
che uno assolto dall’usura potesse aiutarla a vincere, ma ci vuole
sempre fede: nel Lotto, del quale uno, a sua volta, crede che gli
faccia vincere nella vita, in quella vera. E così è tutta una questione
di fede e quindi tutta una questione di superstizione."
Bussano.
Due volte, brevi, ma risolute, e la porta già si apre: due donne piene
di pacchi, e così necessariamente ci si bacia soltanto con un mezzo
abbraccio, gli uomini si piegano in avanti, ciao, piacere, ah: il marinaio
e così io vengo squadrato da quattr’occhi, marinaio, di che, penso e mi
interrogo, perché devo fare la mia comparsa qui a strisce blu e bianche.
“Bene, bene, bene”,
dice Angela, mettono i pacchi sul tavolo all’angolo, una confusione di
scatole di scarpe ricoperte di carta d’alluminio e contenitori di
plastica in buste e borse di moda, “ditemi, uomini:
come
state d’appetito? Oppure gli avvenimenti della storia mondiale ed il
vostro preziosissimo contributo vi lasciano soltanto il tempo per bere?"
Ciro reagisce subito. “No, no."
Totò fa da secondo ed io scuoto la testa.
Angela ride, la giovane vicino a lei non fa una mossa.
“Allora vieni Sera, apparecchia."
Angela
è una persona che si dà da fare di circa cinquant’anni, dignitosamente
portati con fascino. Provo con consigli professionali, ma non
vado lontano. Sembra come se fosse abituata a lavorare con la testa e
con le mani.
“E questa è Sera, mia figlia. In effetti l’ho battezzata come Serena,
la Santa. Ma lei si fa chiamare Sera, la sera. E valli a capire
i giovani, non li si capisce affatto, almeno fino a
quando già non vanno all’università."
“E dai mamma,
smettila!”
Evidentemente innervosita, la giovane.
E
sebbene io non possa fare proprio nulla, penso tuttavia (avevo fatto un
cenno amichevole, ma riservato con la testa, che lasciava trapelare dei
pensieri evidenti per entrambe, madre e figlia, le quali erano ben
consapevoli della loro celata bellezza), sebbene io sia senza colpa,
come un adolescente, faccio sì che Sera mi guardi di traverso da sopra
le spalle uno sguardo storto, mentre spacchetta contro voglia il
mangiare che emana un profumo splendido. Ed io tentenno nelle
interpretazioni. Molto semplice: vecchio trombone: Non ci pensare più?
“Abbaiano”, dice Ciro “ma non mordono, Tschenett, non ti preoccupare.
L’ho sperimentato."
“Sbirro di merda.”
“Lascialo stare, Sera. E te Ciro, non esagerare con i tuoi proverbi."
“Va bene, Sera. Ora mi calmo: Il mio capo mi considera un irrimediabile
testa di cazzo e tu…”
“…. un servo incallito del sistema."
“Vedi”, dice Ciro, spostando due sedie vicino al tavolo, “Non posso
aver fatto tutto sbagliato. Andiamo, sediamoci. Buon appetito."
E
mentre annusiamo con curiosità piatti e contenitori e Sera si aggira
per l’ufficio, mettendo il naso in ogni cosa che assomigli ad una carta
d’ufficio, Angela si guarda nella stanza sfiduciata.
“Non hai messo a posto, Ciro, non è vero?”
“Ha
un buon odore, dico, cercando di guadagnarmi la visuale di ciò che
viene offerto. Il mio rispetto per la signora Angela cresce: pesce
salato e fritto, parmigiane,
friarielle, salsicce, con verdure di ogni sorta e: sfogliatelle e babà.
“No, non l’ho fatto. Significa in effetti: sì.”
“È pulito?”
“Sì”
“Ascolta…”
Angela non si fa fregare facilmente, penso. “Sembro una vecchia
rimbambita? Eh? Ti ho mai detto: prego prego, prendimi per il culo,
possibilmente in presenza dei tuoi amici? E dai, Ciro…”
Gli si para davanti, mettendo le mani sui fianchi. “Qui c’è qualcosa
che non va, Ciro."
Capitolo XIII
Coppiette,
corrispondenti, pensionati esperti di tutte le questioni vitali, Piazza
Municipio è in fermento. Una breve passeggiata per stimolare un
discreto appetito prima di cena. In mezzo, nobilmente delimitate, le
macchine di servizio blu delle autorità comunali, dei loro
rappresentanti e sottocomandanti, un parcheggio di media grandezza al
centro della piazza, ai cui margini, uomini abbronzati in vestiti scuri
mandano avanti gli affari politici del giorno, dimenticati la decisione
dell’amministrazione comunale, lo sai come funziona, il Consiglio
comunale deve decidere, perché così sta scritto, ma significa in
pratica che noi regoliamo la cosa tra amici, fammi fare, al massimo
domani ti chiamo, fidati di me, sai bene quello che significhi per me,
no? E ti abbiamo mai fregato?
Svoltiamo su
Via Medina, improvvisamente intorno a noi agitazione, una frenesia
molto diversa dai disordini della giornata, non si può definire, ma la
si avverte subito.
“Che succede?”, chiede Angela a Ciro.
Lui si guarda intorno e poi prosegue in avanti, Sera, che ha accelerato il passo, segue dietro.
Totò ed io cerchiamo di non perdere il contatto tra la folla, che sta diventando sempre più fitta.
Poi ci fermiamo, come del resto gli altri, e guardiamo stupiti proprio
l’entrata del Palazzo, dove, se fa fede l’insegna, si trova la
Questura, rimaniamo fermi e vediamo: quindici, venti uomini, per nulla
cenciosi, e messi in riga, uniti uno all’altro con le manette.
E mentre mi sto interrogando su che cosa stia a significare, due omoni,
dalle spalle larghe, da dietro in modo un po’ brutale mi spostano da
parte, si fanno largo in avanti, allungano le mani, quasi in sincronia,
continuando a camminare, da sotto le loro giacche si sfilano le manette
dalla cintura, si mettono in fila e si ammanettano.
Non c’era bisogno di vedere la fondina della pistola, per realizzare in
quell’istante con chi avessi a che fare.
“Bravo”,
dico, “Totò, vedi, è così che deve essere. La polizia si ingabbia da
sola. E già qualcosa. E’ un bel quadretto”.
“E come”, dice Totò”
Ma è completamente distratto, si guarda intorno, cerca di trovare Ciro,
che sta a un paio di passi da noi, ma che non si riesce a vedere,
perché ci separano un paio di uomini, che stanno per accendere delle
fiaccole, cosa, però, che non riesce bene, le fiaccole continuano a
spegnersi, uno prende dalla mano dell’altro l’accendino, fammi fare,
sbrigati, e non appena si intravede il viso di Ciro, vedo che parla con
il suo vicino, rivolgendo contemporaneamente uno sguardo interrogativo
ad Angela, che sta davanti a noi.
L’atmosfera ora
è chiaramente molto tesa, dalla moltitudine salgono grida di protesta,
finalmente brucia una fiaccola, fiammeggia e fa fumo, un po’ più avanti
compare un cartello, da una parte legato ancora all’asta, riesco a
leggere Scandalo!.
Finora non si sono visti
uomini in uniforme. Ho, però, il sospetto che i giovani alla nostra
destra non appartengano alla Caritas.
“Che paese di merda!”, grida un tizio.
Anch’io
me ne sono uscito così un paio di volte, di tutto cuore. Non ero però
rappresentante di un ente a tutela dell’ordine. Questa coincidenza mi
sconvolge un po’.
“Mi trovo nel film sbagliato?”, dico a Totò.
“Poliziotti ammanettati, che si scherniscono della nostra meravigliosa
democrazia? Ma può essere davvero così? E se così non può essere, come
deve essere allora?
“E lo chiedi a me?”, dice Totò
Poi nel frattempo tre fiaccole bruciano e cominciano a tirare, Ciro ce l’ha fatta, a farsi largo, con forza verso di noi.
“Hanno
messo sei persone della squadra mobile in custodia cautelare”, dice “e
due poliziotti della Questura”. Si indaga contro ottanta di loro. In
seguito a questo fatto, i cari colleghi hanno occupato la Questura.
Venite”.
E si spinge in avanti, senza vedere, se noi lo seguiamo. Ma
Totò lo può fare, si fa strada con i gomiti, detto, fatto, io rimango
dietro, fedelmente, seguendo le tracce, fino a quando ci troviamo
vicino ad Angela. La guardo con fare interrogativo.
“IL G8” dice,
“Il vertice del G8. Non quello di Genova, quello è venuto un po’ dopo,
a ridosso, ma ha la sua propria storia, il suo proprio dilemma*;
parliamo qui del G8 napoletano, il nostro. Lotte di strada, risse, il
solito. E adesso un piccolo dettaglio non trascurabile: secondo il
magistrato inquirente, quelli della mobile ne hanno trascinato
illegalmente in caserma a centinaia”.
“Pericolo di inquinamento
delle prove”, dice Ciro, “per questo la custodia cautelare. ‘A
giustizia piace, ma non a purtarla ‘ncuollo. La giustizia piace fino a
quando non ti tocca”.
“Contro questo protestano ora i tuoi
cosiddetti colleghi”, dice Angela e le si può leggere in viso che è
arrabbiata, anche se, in mezzo a tutta la confusione, rimane
notevolmente calma.
Da dietro si sente ora gridare, in modo insistente: “Fascisti, fascisti, fascisti”.
Mi
giro e riesco a vedere un uomo sui quaranta, che alza il pugno, prima
di essere accerchiato da un paio di giovani ed essere respinto, un
groviglio di braccia che si agitano, rumori sordi, già non lo si sente
più. E poi scopro Sera. Viene dall’altra parte, si lancia da dietro tra
la moltitudine, è sorprendente quanta energia si nasconda nel suo corpo
magro, e poi ce l’ha fatta, si è aperta un varco, va incontro alla fila
di poliziotti, si ferma poco prima di loro, si mette davanti ad uno,
gli grida in faccia (è la figlia di Angela, si è scelta il più grande,
tenace), gli punta l’indice contro, come un coltello, e dice:
“Aguzzino”. Fa un passo verso destra, punta l’indice: “Ti ho visto”.
Passo verso destra, indice: “Coglione”, passo verso destra, indice:
“Aguzzino”.
I poliziotti non si sono mossi. Non solo perché sono
uniti l’uno all’altro con le manette. Il tono basso di Sera sembra
averli confusi. Fino a quando due tra la folla, in abiti civili, che
passavano molto inosservati, si lanciano su Sera, che subito si scaglia
su di loro dando stivalate e tirando pugni, gridando, “fascisti di
merda, servi del padrone”. Sono riusciti a immobilizzarla, in
quell’istante, Angela scatta e molla un calcio contro il primo sullo
stinco, Ciro dietro, prende uno per il braccio, gridando contro l’altro
e improvvisamente è pace, i due lasciano Sera, che di nuovo li prende a
calci. Ciro la ferma, la prende per la mano e va via, con Angela, tra
la folla, che si apre davanti loro, Totò ed io li seguiamo, la
situazione continua ad essere tranquilla e poi ce l’abbiamo fatta.
Capitolo XIV
Si
va per le strade senza parlare, Sera davanti, a volte inciampa mentre
cammina. Ciro e Angela dietro, Totò ed io come retroguardia. Quasi
tutti quelli che incontriamo vanno nella direzione opposta; questa
strana rivolta dei poliziotti si è, a quanto pare, propagata come un
lampo per i condotti sotterranei della città. E adesso tutti vogliono
vedere con i propri occhi.
Su Piazza Matteotti, sotto l’edificio
postale di epoca fascista, che domina la piazza, Sera si guarda intorno
senza un riferimento preciso.
“Che cosa si
permettono questi”, dice “che cosa pretendono questi maledetti fascisti
di merda? prima picchiano la gente per strada, ricordati del mio occhio
nero Angela, poi spediscono la celere nelle stanze di pronto soccorso
degli ospedali e prendono chiunque, semplicemente chiunque sia venuto e
deve farsi curare, chiunque non abbia compiuto gli ottanta o che se ne
stia seduto in doppio petto; Vera, la mia amica, ha una cugina, che
dalla Sicilia era venuta a trovarla in città, sono andate allora, non
per dimostrare, una giornata in famiglia, a fare una passeggiata a
Capodimonte, giocano con il cane, l’osso le si frattura, distorsione,
gonfiore, ospedale, le due non sono ancora arrivate, che già vengono
trascinate via dalla celere, caricate su una camionetta, fino in
caserma, insieme a decine di altre persone, i loro i telefonini vengono
sequestrati, l’avvocato non c’è, così ecco un colpo, una bastonata,
grida e minacce, vi sistemiamo noi, comunisti di merda, tossicomani e
poi, ancora, messi uno per uno, in una delle stanze piastrellate, e
grida a parte, non si sente nulla, soltanto giù i pantaloni e la
perquisizione personale, per le donne ci sono le donne fasciste, sono
proprio loro, che progresso schifoso, un paio si devono piegare nude
davanti alla porta del bagno, calci alle costole e vuoi un esempio
molto eloquente, mettiamo anche che questa gente sia tutta composta di
terroristi pericolosi, comprese Vera e sua cugina, prendiamo un ragazzo
veramente bravo, così per caso, senza saperlo, questi sbirri di merda
hanno messo dentro anche un giovane avvocato per bene, uno di buona
famiglia, quando vedono il suo documento, se ne rendono conto, lo fanno
avvicinare alla scrivania, si deve piegare in avanti, si becca uno
schiaffo, avvocato d’o cazzo, può andare, tre volte è successo, la
stessa cosa, andare al bagno, svestirsi, inginocchiarsi, rivestirsi,
doveva aspettare fuori in ginocchio, cosa succedeva poi, un’altra
perquisizione personale, Signor avvocato del cazzo, così é, non ci si
ferma davanti quasi a nessuno, e si va avanti per ore e non sembra
finire. E alla fine se ne è fuori: tutto viene dimenticato e superato,
un paio di denunce dei nostri, di più non hanno osato, nessuno di
quelli che è stato condotto in caserma è stato mai accusato, perché non
si poteva accusarli di nulla e i procuratori indagano e noi pensiamo
che di nuovo non succederà niente, come sempre, verrà tutto occultato
in questo Paese e poi? Poi mettono una manciata di sbirri in custodia
cautelare e che fanno gli altri sbirri di merda eh? Non gli rimane che
scendere subito e direttamente in strada con le loro camicie stirate e
ammanettarsi l’uno all’altro, poveri maiali maltrattai che non sono
altro, protesta su protesta, scandalo su scandalo, non ci possono fare
questo, questo no, dove ci troviamo allora? E’ vero, dove ci troviamo,
ti chiedo, Ciro?”
Nel frattempo una manciata di persone si è
riunita intorno a noi, Sera non ha avuto ancora il tempo di riprendere
fiato che il primo già vuole provarci: “Senta, Signorina, nu saccio…”
Ciro prende Sera sotto braccio e fa l’occhiolino ad Angela. “Andiamo”,
dice, “prima che diventi un assembramento di popolo”.
“Storta va, deritta vene; sempre storta nun po^ ghì” …., grida da
dietro l’uomo del popolo, “se le cose vanno male, prima o poi si
sistemeranno”.
“Vedi, Ciro, eccoti le
conseguenze”, dice Angela, “te e i tuoi proverbi napoletani. Adesso te
li gridano dietro già per strada”.
“Perché non me l’hai mai detto?”, chiede Ciro a Sera.
Lei lo guarda per un attimo senza parole, quasi attonita, poi solleva
entrambi i pugni e li batte contro il torace di Ciro. Lui la lascia
fare, fino a quando non si calma.
“Sbirro di merda”, dice Sera, quasi sollevata. “Sei uno sbirro di merda. dammi il tuo telefonino”.
E mentre Sera, un po’ da parte, fa una telefonata, Ciro si gira verso di noi. “Difficile la vecchiaia”, dice.
“Te”, dice Angela, “te sei in un’età difficile, caro mio”.
“Ho un appuntamento”, dice Sera, porge il telefono a Ciro e scompare.
* Quanto qui sopra è riportato
in corsivo
stà in italiano
anche nella versione originale del romanzo.
Tanto per esser precisi.
Mi dicono che ci sarebbe un certo interesse 'scientifico'
verso il fatto.
Per me è di interesse letterario.
Niente a che fare con certi nazionalscemismi.
Tutti
i diritti riservati
Alle hier veröffentlichten Texte unterliegen
dem Urheberrecht.
Sie stehen den Nutzern allein zu persönlichen
Zwecken zur Verfügung.
Jede darüberhinausgehende Verwertung bedarf
der vorherigen Zustimmung des Autors.
Alle hier nicht ausdrücklich eingeräumten
Rechte bleiben vorbehalten.
© Copyright der Texte: Haymon Verlag,
Diogenes Verlag, Kurt Lanthaler und M.L. Del Vecchio
Gewerblicher Gebrauch nur nach Anfrage beim
Autor und mit Genehmigung des Verlages