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Stand 09.03.2011



Un grave fallo


Romanzo. Haymon, 1993. Diogenes Tb, 2000. Haymon Tb, 2010.
Traduzione di Susanna Piccoli





Capitolo I

Avevo ancora trenta chilometri davanti a me. In direzione nord. Per arrivare. Là, dove non volevo andare. Nel serbatoio da 300 litri del mio T.I.R. non poteva esserci più che qualche bicchiere di gasolio. Troppo poco. Troppo poco per arrivare e troppo poco per tornare indietro.
Se proseguivo, la carretta sarebbe schiattata. In mezzo all’autostrada. In mezzo a una stretta fottuta valle. Nel pieno della notte.
Feci un sorso.
L’alternativa era fermare semplicemente il catorcio sulla corsia di emergenza. Fine. Stop. E prendersi una serata libera.
Andai avanti. Quando fosse giunto il momento qualcosa sarebbe successo.
E il momento arrivò. Pestai sui freni. In mezzo alla corsia c’era uno che agitava le braccia. Ci volle un po’ prima che il T.I.R. fosse fermo. La bottiglia di grappa si era mossa da sola. Il contenuto si era rovesciato sui miei pantaloni. Ero fradicio fino al midollo. E il pazzoide era scomparso.
(…)

Mi girai su me stesso finché non capii da dove arrivavano quelle parole. Era il tipo che stava alla mia destra. Poi mi tornò in mente: era quello che aveva gentilmente sponsorizzato la serata. Nel frattempo si era nuovamente seduto e stava girando un’altra canna. Ancora più grande, più tonda, più bella.
„Deve trattarsi di qualcosa di molto segreto, per essere così illuminato" disse.
„E’ roba militare" risposi „ e ciò che è militare è sempre segreto. Non hanno altro da fare".
„Bello però" disse.
Dovevo dargli ragione. I ragazzi avevano buon gusto. Avevano costruito una fortezza di traverso nella valle. Pietra su pietra, muro dopo a muro, feritoie e torrette. Sembrava medioevo turco. E ora erano così gentili da illuminarla come un albero di natale. Era uno spettacolo edificante.
„Ci sono ancora degli idealisti a questo mondo" dissi.
„Intendi quelli là?"
Era di nuovo lui.
„Se solo riuscissi a ricordarmi come ti chiami" dissi e lo guardai.
Pensai che da qualche parte dovevo averlo già visto. E me lo scordai subito. Questa notte non aveva senso riflettere su cose del genere.
„Paolo" disse „l’hai dimenticato di nuovo?"
Mi presi tempo prima di rispondere.
„Me l’avevi già detto?" dissi poi.
„Cosa?"
„Fa lo stesso."
Con i pensieri ero già da un’altra parte. Dopo un po’, erano passate almeno tre eternità, qualcosa mi pizzicò sul braccio.
„Torna tra noi collega" disse Paolo „solo per un attimo „
„Perché?"
„Perché tra un istante spunteranno gli omini verdi, gli verranno le orecchie rosse e ci caricheranno sulla loro astronave".
Mi misi a sedere.
„Di un po’, credi che sia suonato o sbaglio? Solo perché mi scolo il tuo whisky e voglio stare in pace?"
Improvvisamente l’uomo mi era meno simpatico.
„E ma dai" disse dandomi una pacca sulla spalla, „ tranquillo amico, dai."
Mi mise sotto il naso la nuova canna. Com’è che era andata la faccenda? Com’è che ero finito qui con questo tipo? Frugai nei miei pensieri finché emerse qualcosa che assomigliava ad un ricordo. Giusto. La Ferrari. L’aspirante suicida sull’autostrada. Il mio T.I.R. E il serbatoio vuoto. Merda. La realtà mi aveva catturato di nuovo. E io l’avevo di nuovo alle gola. Mentre prima stavo proprio per scordarmi felicemente di tutto.
„Carissimo" dissi e tentando faticosamente di alzarmi „Alla prossima allora".
Forse l’operazione era più facile se mi giravo su un lato.
„Cosa fai?" disse Paolo.
„Mi alzo" dissi. „Una volta sapevo come si faceva". Feci due respiri profondi. „Credo di ricordarmi ancora come si fa."
„Dai" disse Paolo „lascia perdere. Resta seduto."
„Chi sei?"
„Paolo" disse e sorrise.
„Aha." Paolo. L’uomo che era sbucato dal buio e che provvedeva al fumo e al bere.
„Ok" dissi. „Tu sei Paolo. Io sono Tschenett".
„E quello cos’è?" Indicava la fortezza illuminata di luce arancione.
„Se mi ricordo bene" dissi "qui in passato gli austriaci si difendevano dagli italiani. E oggi gli italiani si difendono dai russi. Si chiama Franzensfeste. In italiano semplicemente Fortezza."
„Gli italiani si difendono dai russi? Con una costruzione del genere?"´
„Sì" dissi. „Qualcosa in contrario? I russi invadono l’Austria e poi vogliono entrare in Italia."
„Cesenatico. Rimini. Caorle:"
„Esatto. Esatto." dissi. „I russi a Rimini. Prova ad immaginartelo. Violentano le donne tedesche, si fanno lucidare gli stivali da piccoli italiani neri e pisciano in mare."
„E per questo hanno acceso l’illuminazione?"
Osservai la fortezza. Si estendeva con grazia nella valle. Da un pendio all’altro della montagna. Ovunque avevano messo del filo spinato e ogni cento metri uno di quegli antiquati fari giganti. Zona di sicurezza. Armata fino ai denti. Attenzione, uso di armi da fuoco. Pericolo di morte. Todesgefahr. E poi bastava scavalcare il guard rail dell’autostrada e ci si trovava sul loro tetto. Che era coperto di erba.
Proprio un bel posticino ci eravamo scelti, io e il mio strano ospite. Eravamo sdraiati in piena zona militare a bere e fumare. E ce ne infischiavamo di tutto il resto. Lentamente il mio vicino mi stava tornando ad essere simpatico.
„Sì" dissi „così che i russi vedano che non hanno nessuna possibilità".
„Se quelli attaccano, ci siamo in mezzo tutti." disse Paolo „Da lassù arrivano un paio di missili e fanno saltare in aria tutto. E basta. Chiuso. Serata libera. Fine." Mi passò la canna.
„Ai russi non gliene frega niente di noi" dissi „E a me di loro."
„Vero anche questo" disse Paolo.
Poi ci passammo la bottiglia per un paio di volte.




Capitolo V

Dopo aver mandato giù la seconda birra, cominciai a sentirmi meglio. Ero arrivato. La zona non si poteva necessariamente definire casa. Per poterla considerare tale era troppo scomoda questa provincia italiana in mezzo alle montagne in cui parlavano tre lingue diverse, ma si discuteva sempre sulla stessa. E cioè sulla propria.
Non mi ero ancora abituato all’idea di esserci finito. Dopo gli anni passati nel nord e nel profondo nord. Finché non era diventato troppo freddo per me. E mi ero trasferito in direzione sud. Ma neanche là avevo trovato il calore giusto. Più a sud faceva troppo caldo per me e qui, nel mezzo, non riuscivo a resistere. Ma ero ugualmente contento di essere arrivato.
Non ero più in viaggio, non ero più in groppa al mio TIR, ma seduto su uno sgabello in una bettola. Uno sgabello piuttosto scomodo e per giunta rivestito di un tessuto che imitava la pelle di vacca. Ma comunque. Nessuna autostrada davanti a me, e nessuna dietro di me. Niente mobili in stile, niente reggicalze, niente pomodori, mele, ciliegie, semi di zucca, uova di pesci rossi, niente pezzi di ricambio assurdi per macchine ancora più assurde che producevano cose del tutto assurde.
Salivo volentieri in groppa al mio camion, ma ci restavo malvolentieri. Era così semplice.
Le due birre mi avevano aiutato a mandare giù il più grosso della polvere. Ora era giunto il momento di procurarsi qualcosa come si deve.
Mi sedetti nel mio posto abituale. Ordinai spaghetti aglio, olio e peperoncino e una bottiglia di Lagrein, Villa Karneid.. Tenevano questo vino da quando una volta ne avevo portato al padrone una bottiglia da assaggiare. Direttamente dalla cantina Castelfeder. A dire il vero qui non ne vendevano molto. Era comprensibile in un locale che si chiamava Försterkeller e che era considerato una discoteca per fanatici di musica popolare. Per tipi del genere bastava un Löwentrunk o Meraner Gold Scelto.
In compenso non avevano lesinato sull’arredamento. Tutto intorno, fin dove arrivava l’occhio, c’era legno. I tronchi invecchiati artificialmente in modo molto abborracciato erano stati intassellati sul soffitto. C’era anche un angolo che imitava una malga. Le tende erano a quadretti bianchi e rossi. Alla parete erano appese corna e pelli di varie specie alpine. E i più disgustosi attrezzi di latta, ottone e ferro che si potessero immaginare. Una vera camera di tortura.
Di norma il Försterkeller era scenario di guerre di posizione e battaglie di trincea tra le reclute dell’esercito italiano e i giovanotti delle valli laterali circostanti almeno altrettanto prodi e coraggiosi.
I giovani soldati, mandati in questa inospitale terra di montagna dal profondo sud del paese da degli ufficiali sadici, ritenevano di essere, e questo non sempre a torto, i più begli esemplari del sesso maschile. I giovanotti, che di lì a poco sarebbero arrivati nella discoteca dai masi montani, erano dal canto loro abbastanza sicuri di godere nel territorio di diritti più inveterati e garantiti. Soprattutto sui rarissimi leggiadri esemplari di sesso femminile che a volte si smarrivano nel locale. L’una o l’altra lavapiatti o le turiste nordiche alla ricerca di genuinità.
Per questo motivo, non appena svuotati, volavano i boccali di birra. E con essi tutto ciò che poteva essere a portata di mano. Si menavano con tale regolarità e fervore che ormai si poteva soltanto parlare di amore.
Il Kreutzer era arrivato. Mi concessi un primo sorso. Bene così.
Sembrava che questa sarebbe stata una serata tranquilla. La mezzanotte era appena passata, gli arditi soldati erano già da molto nelle loro brande. Il silenzio li aveva di nuovo catturati. E gli abitanti delle valli laterali erano già così sbronzi che si reggevano la testa pesante con entrambe le mani e si muovevano appena. Perfino le due lavapiatti sulla pista da ballo li lasciavano indifferenti. Ora che in lungo e in largo non c’era più l’ombra della concorrenza. Al soffitto era appeso un televisore che trasmetteva senza audio una partita di calcio.
Poi si aprì la porta. Insieme ad un giovane sproporzionatamente alto entrò nel locale una ragazzina. Nello stesso istante Charlie, il padrone di casa, mi portò gli spaghetti aglio, olio e peperoncino.
Per alcuni secondi mi sentii scombussolato. E piuttosto stupido. Non poteva avere più di sedici anni. Quindi tra me e lei c’erano vent’anni, il Lagrein e gli spaghetti. Troppe cose.
„Buon appetito“, disse Charlie. „Sembri avere un grande appetito.“
Mi aveva pizzicato mentre, con la forchetta in mano, stavo fissando dall’altra parte del locale.
„Lascia in pace gli anziani.“ gli dissi.
„E tu i giovani“. Mi aveva beccato in pieno.
„Sparisci“, dissi, „sennò finisci col farmi passare la voglia di mangiare.“
Per quanto assurdo possa sembrare, il Försterkeller aveva alle sue dipendenze un cuoco sorprendentemente bravo. Anche se non c’erano più di una manciata di piatti diversi tra cui scegliere, e il locale non preparava più di 3 o 4 coperti a sera, l’uomo era bravo. Grazie a cosa o per cosa valesse la pena tenerlo, era un’altra questione.
L’aglio, olio e peperoncino era come sempre preparata a puntino. Tra una forchettata di spaghetti e l’altra mi accorsi infine che i due nuovi arrivati erano di nuovo scomparsi.
Stavo versandomi del vino quando la piccola ricomparve. Dal gabinetto. Si appoggiò al banco e ordinò. Mentre arrotolavo lentamente la pasta sulla forchetta la guardavo. Era maledettamente giovane. E un po’ alticcia. E cercava delle sigarette. Tirai le mie verso di lei. Si avvicinò e si sedette sull’angolo del bancone.
„Me ne servono due“, disse.
„Per il tipo?“
„Quale tipo?“
„Quello di prima.“
Sembrò riflettere brevemente. Chinò il capo, lo rialzò poi con uno scatto e mi guardò dritto in faccia.
„Ciccio? No.“ Non si mosse.
„Prendine quante ne vuoi“, dissi.
„Va bene.“ Non sembrava essere molto loquace.
„Bevi un bicchiere con me?“
„Ho già ordinato una Coca Cola.“
„Giusto, una Coca Cola“, dissi. „Cos’altro.“
Allontanai il piatto. Avevo mangiato abbastanza. E poi la osservai. Intanto aveva preso la Coca, stava lì seduta, beveva lentamente la broda dolce e per il resto non si muoveva.
„Vuoi anche del fuoco?“
In effetti, mi sentivo un po’ stupido, ma non potevo farne a meno.
„No. La fumo più tardi.“
E mentre lo diceva, mi guardava. E non mi perse più di vista. Anch’io la guardavo. Durò per un po’. Non avrei saputo dire cosa vedevo.
„Posso portarli via?“
Era Charlie. Che si immischiava di nuovo. Non lo degnai di uno sguardo.
„Portali via. E dì al cuoco che oggi non erano buoni“.
„Dubito che sia colpa sua.“
„Fila via.“
Al momento non sapevo cosa farmene di quell’impiccione. D’altra parte aveva ragione. Lo spettacolo che stavo dando era piuttosto sciocco.
Charlie sogghignò e allungò la mano verso il piatto. „Li mangio io, se per voi fa lo stesso.“ La piccola si era accaparrata gli spaghetti con una notevole velocità.
„Oui, Madame“, disse Charlie.
„Cretin“, dissi.
„Cosa?“
„Appunto“, dissi. „Non iniziare neanche se sai solo quelle due parole.“
L’avevo offeso. E che ancora non gli avevo detto che oggi intendevo mangiare e bere a credito. Si ritirò imbronciato nel suo cantuccio vicino alla macchina da espresso.
La piccola si era avvicinata, girava gli spaghetti sulla forchetta e li guardava arrotolarsi.
„A dire il vero non ho fame“, disse.
„Allora non mangiarli.“
Lei continuò a girare.
Era una creatura piuttosto graziosa. Con il viso magro e pallido. Con un naso all’insù, capelli scuri, sottili, lunghi fino alle spalle. Pantaloni neri stretti, una maglietta che le arrivava quasi fino alle ginocchia, giacca nera, croci e altre reliquie. E un’espressione sul viso come se sapesse tutto e niente. Poi sorrise.
„Stai calcolando le probabilità di riuscire a fare qualcosa con me?“ disse continuando a guardare gli spaghetti che si attorcigliavano.
„No“, dissi. „Sto osservando una cosa“.
Alzò lo sguardo.
„E che cosa?“
„Ancora non so cosa sia“, dissi.
„Mi chiamo Sabrina.“
„Tschenett.“
Poi rimanemmo seduti senza dire niente. E cosa c’era da dire?
Tschenett lascia perdere questa stupidaggine, pensai. Poi ti sentirai di nuovo infelice. Lascia perdere. Non ne viene fuori niente. Quando aveva ragione, aveva ragione, il Tschenett. Non faceva proprio al caso suo. Guardo soltanto, mi dissi. Almeno guardare si potrà ancora. Non si può proprio niente, Tschenett. A meno che non lo si faccia.
„Sabrina“, dissi. „Può andare.“
„Se preferisci un altro nome, per me fa lo stesso.“
„Non migliora la situazione“ dissi.
Poi rimasi lì, mi accesi una sigaretta e la guardai.
Lei non si lasciò disturbare e continuò a lottare con gli spaghetti. A volte tagliava con i denti uno ad uno gli spaghetti che resistevano. Fame non ne aveva proprio.
„Verschwind. Sparisci.“
Davanti alla piccola si era fermato uno che le aveva messo una mano sulla spalla. Aveva la schiena rivolta verso di me. La piccola mi guardò per un istante, poi si alzò.
„Stronzo“, disse.
„Sei ein Braves. Fai la brava. Vai a casa.“
„Non rompere, coglione“ disse e lo guardò con indifferenza, „tranquillo“.
Per lo meno lo stronzo non era indirizzato a me. Per un istante non ne ero stato molto sicuro.
Poi l’uomo si girò. Era il poliziotto che poco meno di due giorni prima si era preso i miei documenti. Ci mancava solo lui.
„Tschenett, giusto?“
„Può essere“, dissi.
Avevo altro da fare che occuparmi di lui. La piccola stava lasciando il locale. La seguii con lo sguardo.
„Achtung! Quella è talmente giovane che non potrebbe neanche entrare in una bettola come questa. Capito, Tschenett?“
„No.“
„Come vuole“, disse „E’ qui con il camion?“
Cosa voleva da me questo poliziotto in borghese. Sembrava che fosse stato catapultato qui direttamente dalla Sicilia. Doveva avere pressoché la mia età. Non ancora del tutto vecchio e da molto non più giovane. Si comportava in modo abbastanza gentile. E a tratti nel suo tedesco aveva un accento dialettale tipico delle valli più sperdute.
„Camion?“ dissi „E’ proibito adesso?“
„Tranquillo. Era solo una domanda.“
Allungai la mano verso la bottiglia di Lagrein. Il tipo mise la sua mano sul mio braccio.
„Un attimo di pazienza. Prima abbiamo ancora qualcosa da fare.“
„Non credo“ dissi.
„E come“, disse. „Gehen wir. Andiamo. Ho un mandato di perquisizione per il camion.“
Si girò e si avviò. Non mi rimase alternativa.

Eravamo davanti alla motrice. Andando verso il parcheggio avevo guardato se vedevo la piccola. Era come se fosse stata inghiottita dalla terra. Peccato. Ma al momento avevo altri problemi sul groppone.
„Evvabbene, andiamo“.
Lo sbirro stava lì e aspettava che gli aprissi la portiera. Lo feci. Tanto ormai le cose stavano andando come volevano. Forse avrei avuto fortuna.
Dieci minuti dopo tutto era perduto. Il collega della polizia aveva guardato in giro con attenzione. Ed era sceso dalla motrice con in mano due pacchettini.
Me li mise sotto il naso.
„Allora vediamo“, disse. „Cosa abbiamo qui?“
Prese uno dei pacchettini, lo pesò con la mano e mi guardò.
„Dieci grammi scarsi, o sbaglio?“
„Ormai sette scarsi“, dissi.
Mi guardò in modo indagatore.
„Cocaina?“
„Per uso personale“, dissi.
„Uso personale? Evvabbene. E questo?“
„Anche.“
„Marijuana. Per uso personale. Quindici o venti grammi.“
„Sì“, dissi. „Per uso personale. Hausgebrauch. Non sono uno spacciatore. Per questo non potete farmi altro che confiscare la roba.“
„Vedremo.“
Si mise in tasca i pacchettini.
„Penso che dovremmo discutere di qualcosa“, disse „Gehen wir etwas trinken. Andiamo a bere qualcosa.“
Perché no. Per oggi la notte ormai era andata a farsi fottere. La piccola era sparita e i miei pacchettini di Amsterdam erano nella tasca di questo sbirro. Che voleva ad ogni costo bere qualcosa con me. In quella camera di tortura chiamata Försterkeller. Se questo non era un buon motivo per farsi un goccio. E poi nel locale c’era ancora una mezza bottiglia di Lagrein che mi aspettava.

„Un whisky. Doppio“, aveva ordinato lo sbirro.
Mi ero ripreso la bottiglia. Ci sedemmo nell’angolo più silenzioso del Försterkeller. Nascosti dietro alla ruota di un mulino sulla quale all’interno del plexiglas scorreva allegramente dell’acqua di rubinetto sporca illuminata di rosso.
„Allora Tschenett: Come la mettiamo?“
Alzai le spalle. Che si prendesse pure le sue soddisfazioni. Non potevano farmi molto finché me la cavavo con il fatto che portavo con me la roba per uso personale. E così era.
„Tschenett, abbiamo un problema.“
„Non che io sappia.“
„Non parlo della roba trovata nel camion. Quello lo stabilirà un giudice. Nel caso che lo renda ufficiale. E si arrivi alla denuncia.“
„Cosa vuol dire nel caso che?“
„Vuol dire che si tratta di una cosa completamente diversa. Di un morto.“
Per quanto possibile cercai di rimanere calmo. E di far finta di niente.
„Das hat nichts mit mir zu tun. Non può aver niente a che fare con me“, dissi. „Io sono ancora vivo. E per questo non me ne frega niente. Mi denunci pure. E dimentichiamoci il tutto.“
„Dove si trovava tre giorni fa? Verso le una del mattino?“
E questo adesso cosa c’entrava?
„Non me lo ricordo. E’ passato troppo tempo.“
„Allora L’aiuto. Si trovava con il TIR sulla corsia di emergenza dell’autostrada, sulla carreggiata in direzione nord al chilometro 87. Sa dov’è?“
„Non ne ho la più pallida idea.“
„Fortezza.“
„Continuo a non averne la più pallida idea.“ Attenzione, Tschenett. Qualcosa nel mio cervelletto mi mise in allarme. Questo ti sta incastrando. Doppiamente. Lo sbirro fece girare un paio di volte i cubetti di ghiaccio nel bicchiere di whisky.
„Che cosa devo pensare di uno che in piena notte lascia il TIR per ore sulla corsia di emergenza? Vicino a una Ferrari? E i due conducenti sono spariti. Non si vedono da nessuna parte. E poi i due signori rispuntano piuttosto ubriachi nel bar di un’area di servizio. E il giorno dopo in zona militare, a ridosso dell’autostrada, proprio nel punto dove i due signori se la sono visibilmente spassata troviamo oltre che una bottiglia vuota di whisky e alcuni mozziconi di canna anche un cadavere. Per cosiddire un essere umano, come dice il nostro patologo, un essere umano che è morto in quel luogo tra mezzanotte e le cinque del mattino. Cosa ne pensa? E cosa devo pensarne io?“
Svuotai il mio bicchiere. E poi me ne versai lentamente un altro.
„E’ un po’ troppo, così tutto in un colpo.“ Avevo bisogno di tempo per riflettere.
„Come vede. E io ho sul groppone storie del genere un giorno sì e uno no.“
„Non posso farci niente, io.“
„Forse sì.“
Lo sbirro stava lì, si dondolava da una chiappa all’altra e si godeva la vita. Dio quanto mi stava antipatica quella categoria. Cosa poteva spingere una persona più o meno normale, più o meno intelligente, più o meno sana a ficcare il naso negli affari degli altri, a fare domande inutili, ad immischiarsi in tutto e di tutto. E comportasi così come se sapesse sempre quale era il davanti e il dietro, l’alto e il basso, la sinistra e la destra, il bene e il male. Per me era già difficile decidere se ero un maschietto o una femminuccia. E questi pensavano di sapere tutto. E di avere tutto sotto controllo.
„Avete di nuovo tutto sotto controllo?“ dissi, “alles unter Kontrolle?”
„Sotto controllo? Tschenett, credo che non ci capiamo. E’ morto un uomo e io voglio sapere come è successo. Il resto è di competenza degli avvocati e dei giudici. Non mia. Capisce? Non ha niente a che fare con alles unter Kontrolle.“
Il discorso lo aveva messo un po’ in agitazione. Come se avessi toccato un punto dolente. Strano sbirro. Tschenett, fai attenzione, segnatelo nel tuo grosso libro nero. Su quel punto lo puoi stuzzicare. Nel caso ti dovesse pestare i piedi.
Subito dopo aveva ripreso il controllo di sé.
„Nel caso Lei abbia avuto qualcosa a che fare con il morto, lo scoprirò. E fino ad allora la terrò d’occhio, Tschenett.“
„Per quel che mi riguarda“, dissi. „Se al mondo non circolano delinquenti peggiori di me, va bene. Ma quando ne avrò abbastanza, ne avrò abbastanza.“
„E poi?“ disse lo sbirro sporgendosi lentamente in avanti finché non mi fu abbastanza vicino „cosa succederà?“
„Cosa succederà? Si vedrà“, gli dissi con una faccia almeno altrettanto ostinata. „Sarà ancora tutto da vedere.“
Ma cosa pensava quello? Di potermi intimidire? Doveva svegliarsi prima. Molto prima. Così presto non ci si poteva neanche svegliare. Bene, avevano trovato un cadavere. Nel posto dove anch’io avevo gironzolato. Circa alla stessa ora. In effetti, non riuscivo a ricordarmi distintamente di quella notte. Mi ero stordito troppo perché potessi farlo. Ma se faccio fuori qualcuno in genere non me lo dimentico così in fretta. Lo sbirro doveva cercarsi qualcun altro. Anche se voleva dire darsi da fare.
„Tschenett, ich möchte Ihnen eine kleine Geschichte erzählen. Le vorrei raccontare una piccola storia“, disse lo sbirro improvvisamente di nuovo del tutto rilassato e si appoggiò alla pelle di vacca.
„Una piccola storia? Se può servire alla scoperta della verità“, dissi e sogghignai nel modo più diabolico possibile. Ero curioso di sentire che storia voleva raccontarmi quest’uomo singolare. E perché.
Prima si concesse ancora un sorso.
„A Terenten venticinque anni fa viveva un vecchio. Uno di cui non si sapeva bene da dove era venuto. Non si sa quando, ancora da bambino, era finito presso un maso di Terenten dove faceva il bracciante. E era invecchiato facendo il bracciante. Più invecchiava, più gli abitanti del paese lo consideravano strano, alcuni perfino un vecchio stregone. O per lo meno uno che era diverso da loro. E quando attraversava il paese zoppicando sui piedi deformati dall’eterno lavoro nei suoi stivali di gomma troppo grandi, gli uni si facevano il segno della croce e gli altri lo deridevano. A volte, se il veterinario non poteva più aiutare, lo si chiamava in un maso. Allora raccoglieva alcuni rami nel bosco, con questi girava attorno alla mucca mormorando parole incomprensibili, si faceva dare una bottiglia di grappa, con metà di questa massaggiava la mucca e l’altra metà se la beveva. Poi si faceva dare dal contadino un pezzo di speck e spariva così come era comparso. A volte le mucche sopravvivevano.“
Cosa mi sta raccontando questo sbirro? Pensai. Siamo già arrivati al punto che alla scuola di polizia devono studiare i miti popolari delle Alpi?
Lo sbirro continuò a raccontare dopo che ebbe ingerito un bel sorso di whisky. Ci mancava solo che con l’altra metà mi massaggiasse le cosce.
„Le mucche sopravvivevano. Il vecchio è morto. I due giovani figli del più ricco contadino del paese erano stati ad un matrimonio nel paese vicino. Quando la notte tardi erano sulla via di casa incontrarono il vecchio. Ubriachi marci come erano lo gettarono sul cassone dell’Ape. Lì c’era già un ragazzino di un paio di anni più giovane di loro, aveva tredici anni, che aveva suonato la fisarmonica al matrimonio. I due giovani contadini si divertivano a passare a tutta velocità su ogni buca che potevano vedere alla luce dei fari. I due dietro sul cassone venivano sbalzati in qua e là violentemente. Il ragazzino aveva il suo bel daffare per salvare la fisarmonica e tenersi aggrappato. Fermatevi, urlava, Anhalten. Chiudi il becco, italiano, rispondevano gridando i due conducenti. Anche il vecchio gridava. Finché in una curva non riuscì a tenersi e cadde dal cassone. Il ragazzino, che, anche se era più giovane di un paio di anni, frequentava la stessa classe unica dei due figli del contadino ricco che erano davanti a lui nella cabina dell’Ape e ridevano, lasciò cadere la fisarmonica e picchiò con i pugni sul finestrino della cabina del conducente. Finché raggiunsero il paese. La fisarmonica nel frattempo era andata persa. Si fermarono, scesero e gli dissero di andare a casa. E di tenere la bocca chiusa. Nel caso non volesse un paio di schiaffoni. Ma quello è caduto dall’Ape, disse. Non è caduto per niente, dissero loro, voleva scendere ed é saltato giù. Lascia quello stupido vecchio dov’è. Poi lo minacciarono ancora. Egli tornò indietro a cercare la fisarmonica e il vecchio. Trovò la fisarmonica. Piuttosto malconcia. Il vecchio era scomparso. Due giorni dopo fu ritrovato da un contadino nel bosco, un paio di centinaia di metri più in basso. Doveva essere morto durante quella stessa notte. Si era ferito in modo piuttosto grave al torace e alla testa. E in paese si disse che era precipitato perché ubriaco fradicio. E che era prevedibile visto quello che era solito bere. Il ragazzino andò da suo padre e gli raccontò la storia. Questi gli diede due schiaffi. Uno per la fisarmonica. E il secondo, perché tenesse la bocca chiusa. Senti, disse suo padre, così per me è già abbastanza difficile vivere e lavorare qua. Chi lo vuole, un maresciallo pugliese, in un paese come questo ? E adesso che le cose stanno per andare un po’ meglio, non impicciarti. E chiudi la bocca. Non hai visto niente. Basta. E poi il ragazzino si beccò un altro schiaffo.
I due giovani contadini ricchi la scamparono indenni, il loro padre fece dire due messe mattutine per il vecchio. E il ragazzino non poté più per tutta la vita guardare negli occhi suo padre, il maresciallo dei Carabinieri, senza pensare al vecchio, che non aveva fatto del male a nessuno e aveva lo stesso dovuto morire in quel modo.“
Aveva finito. Prese il bicchiere di whisky e lo svuotò con un sorso. Era proprio uno strano sbirro. E raccontava strane storie.
„Era una storia piuttosto lunga. Com’è che la conosce?“ dissi.
Per quanto parlasse bene tedesco, cosa poteva saperne uno sbirro italiano di Terenten o di uno degli altri paesi di contadini dimenticati da Dio?
„Questa è un’altra storia“, disse lo sbirro. „Forse gliela racconterò. Ein andermal vielleicht. Un’altra volta. Può darsi.“
E poi si alzò lentamente. Nel frattempo il locale era diventato quasi deserto.
„Tschenett, se sa qualcosa sul nostro morto, me lo dirà. Prima o poi. Das versprech ich Ihnen. Glielo prometto.“
„Non prometta troppo“, dissi.
Sul suo volto era calata una stanchezza spessa dei centimetri. Scosse lentamente il capo.
„Wir werden sehen“, disse, „Vedremo.“
E poi si girò e andò lentamente in direzione dell’uscita.

„Questo è uno dei pochi che non sono del tutto da buttare“, disse qualcuno dietro di me, una mano si posò sulla mia spalla.
Mi girai. Dietro di me c’era Charlie. Il vero nome di Charlie era Sebastian Rieger. Ma Sebastian non era un nome per uno che aveva una discoteca. Nemmeno se si trattava del Försterkeller.
„E tu come fai a saperlo?“ dissi. „Uno sbirro è uno sbirro. E rimane uno sbirro.“
„Forse per te Tschenett. Perché non sei del tutto giusto qui.“
Charlie si era picchiato la fronte con l’indice.
„Mi vuoi offendere?“
„Non voglio proprio niente“, disse. „Se non farti due domande: primo, se anche oggi devo segnare o se, tanto per cambiare, intendi pagare. E secondo, se domani sera hai tempo di lavorare un po’ qui. Così si potrebbe scalarlo dai debiti che hai con me.“
„Non ci credi neanche tu. Che io venga e ti faccia un turno senza vedere una lira. Lavorare gratis? Non puoi pretenderlo da me.“
„Perché gratis?“ disse Charlie. E tirò fuori la bottiglia di whisky che teneva dietro alla schiena. „Per i debiti, semmai. Prima o poi vorrai ben pagarmeli.“
„Non puoi pretendere questo da me.“
Mi riempì il bicchiere fino all’orlo.
„Basta così“, dissi, quando il bicchiere stava per strabordare.
„Ci credo. Anche per me. Mi dispiace Tschenett, ma finché non lavori per me per pagare almeno in parte i debiti, non posso più farti credito. Lo capirai.“
Capivo. Ad eccezione del bicchiere davanti a me ero all’asciutto.
„Charlie, ti faccio una proposta“, dissi. „Facciamo fifty fifty. Metà a te, metà a me. Meglio mi paghi e più in fretta recuperi il tuo denaro. E io continuo ad avere credito.“
Charlie mi guardò di sbieco per un po’. Come se stesse riflettendo. Ma non lo stava facendo. Non aveva nessun’altra possibilità per ritornare in possesso del suo denaro. Quindi avrebbe detto di sì. E io me la sarei cavata un’altra volta a buon mercato. Sempre nel caso che non volesse mettermi a lavare i piatti.
„Bene“, disse Charlie.
„Non va ancora bene per niente“, dissi. „Prima dimmi che cosa devo fare. E quanto guadagnerò.“
„Disk- jockey. E buttafuori.“ disse.
E mi guardò in attesa della risposta. Quindi la sua proposta doveva essere parsa singolare anche a lui.
„Charlie“, dissi, „da quanto tempo ci conosciamo io e te?“
„Da quando ho questa bettola. Da un anno.“
„Giusto. Un anno. E in questo anno non ti è mai passato per la mente che la musica nel tuo locale mi rompe soltanto le palle e che sono un tipo piuttosto sensibile? Disk- jockey. Buttafuori. Guardami.“
„Va bene“, disse Charlie. „Ma domani sarà una giornata pesante. E così all’ultimo momento non trovo nessun’altro“.
„Giornata pesante?“
„Ho una prenotazione per trenta naioni. Un paio di loro vanno a casa dopodomani. Congedati. Trenta naioni. Riesci ad immaginarti che cosa significa?“
Come no. Legna da ardere. Più che legna da ardere non sarebbe rimasto del locale dopo che se ne fossero ritornati a casa. Trenta coraggiosi soldati e un paio di manciate di robusti giovani contadini: era sufficiente  per far tendere allo zero l’incasso della giornata. E Charlie, in passato cameriere che era riuscito a diventare il gestore di questa bettola, soffriva già da troppo tempo per questo. I buttafuori non resistevano a lungo nel Försterkeller.. E i disk- jockey ancora meno. Perché qui si prendeva subito un colpo in testa se si metteva la musica sbagliata. E per qualcuno era sempre la musica sbagliata.
„Per quel che mi riguarda, accetto“, dissi. „Non avevo comunque niente di meglio in programma.“
Charlie prese la bottiglia di whisky, la portò alla bocca e fece un bel sorso. Poi si asciugò educatamente la bocca con il dorso della mano.
„Meraviglioso“, disse.
„Quanto vuoi?“
Non è così facile, Charlie. Ancora non è fatta.
„Cento.“
Scossi la testa.
„Non va ancora, Charlie“, dissi.
„Centoventimila. In nero. Sull’unghia.“
Scossi di nuovo la testa. In modo piuttosto compassionevole.
„Settantacinque“, dissi. „Settantacinquemila per te. E settantacinquemila per me.“
„Kleiner Dieb. Landruncolo. Gauner. Strozino.“
„Perché? Ti tieni il 50 per cento. E’ comunque un affare. E io ti garantisco che i giovanotti saranno bravissimi.“
Come pensavo di farlo in ogni caso non mi era ancora chiaro. Ma su questo avevo ancora tempo per rompermi la testa.
Charlie si alzò.
„Bene. Domani a partire dalle otto di sera. Puntuale. E non ubriaco.“
„Scordatelo.“
„E’ la tua ultima possibilità, Tschenett. Altrimenti qui è finita col farti credito. Non ti dimenticare di questo.“
E come avrei potuto dimenticarlo.

Charlie spense le luci. E accese i neon. All’improvviso il locale assunse di nuovo l’aspetto consueto. Sporco, pestilenziale, fatto di plastica scadente e di compensato scadente.
Lasciai quel posto di corsa. Non potevo costringermi a sopportare anche questo.
(…)






Capitolo IX

Faceva caldo. Un caldo insopportabile. Più che insopportabile. Era una sauna, un forno, un grill per polli. E tutte le altre fonti di calore che potevano esistere. Un qualche fuochista sconosciuto doveva averle accese tutte al massimo contemporaneamente. Quasi non osavo respirare. Per il timore che l’aria tremolante potesse arrostirmi i polmoni dall’interno. Da un momento all’altro avrebbe suonato il timer per le uova sode, mi sarei picchiato sulla testa con un cucchiaino, avrei tolto il guscio, sparso il sale e mi sarei avventato sull’uovo sodo.
Procedevo a fatica lungo il bordo della strada in direzione della città. Ed ero incapace di alzare anche solo il pollice per far fermare uno qualunque dei turisti, infanticidi e padri di famiglia.
„Fa proprio caldo", aveva detto il contadino che mi aveva dato un passaggio sul suo trattore da Maria di Trens in direzione Vipiteno. Per un chilometro esatto. „Ma se non è caldo in agosto, quando dev’esserlo?"
In effetti, il discorso aveva una sua logica, ma non dovevo necessariamente essere d’accordo. E per questo invece di rispondere feci una smorfia.
„Con un caldo come questo non si sta bene neanche in città", aveva detto il contadino.
E così dicendo sottovalutava e sopravvalutava degli aspetti. Per prima cosa questo non era più di gran lunga un semplice caldo, ma qualcosa di peggio, per il quale non avevo ancora trovato un nome. E Vipiteno poi, non era di gran lunga ancora una città, solo perché in mezzo al nugolo di case c’era qualcosa che chiamavano torre cittadina.

Un’ora scarsa più tardi ero seduto sotto la torre cittadina e ringraziavo per la sua esistenza i nobili padri del borgo e i suoi costruttori. Perché proiettava una magnifica ombra. Al cui riparo potei ritirarmi poco prima che i miei preziosi succhi vitali fossero completamente evaporati.

Mi ero procurato due lattine di birra, le avevo buttate giù tutte in un colpo e così ora stavo lentamente recuperando le forze e la ragione. Cosa mi aveva spinto a venire in città? Dove c’era solo caldo e niente altro. La stessa cosa che mi aveva spinto ad andare via da Haus Waldfrieden. Una irrequietezza che non sapevo da dove venisse e dove mi avrebbe portato. Per la quale ero perfino corso attraverso l’inferno. Sempre rasente il bordo della strada.
Rovistai nelle mie tasche e contai. Mi erano rimasti ancora giusto i soldi per comperare un pacchetto di sigarette e un giornale. E un bicchiere di vino bianco. Forza dunque. Lentamente mi alzai. Senza troppa fretta. Avevo ancora il sudore sulla fronte. E subito, non appena avessi osato uscire dall’ombra, avrei ricominciato a grondare.
Ma il vino bianco mi attirava. E il pomeriggio diventava sempre più corto. Tra un paio di ore avrei dovuto essere al lavoro. Nel Försterkeller. A meno che il ricordo della sera precedente non mi ingannasse.
Nonostante tutto ero contento di aver accettato. Anche se il tipo avrebbe messo subito le unghie sulla metà del guadagno. Ma almeno per questa sera non dovevo preoccuparmi del bere e del mangiare. Il resto poi sarebbe venuto da sé.. Non appena avesse fatto più fresco.

Per quel che riguardava le sigarette avevo optato per delle Esportazione senza filtro, in un cestino della spazzatura avevo trovato l’edizione odierna del quotidiano sportivo rosa. Ragazzo mio, pensai, ora hai un cash flow di ben tre bicchieri di vino bianco. Se questo è niente. Dovevo aver letto l’espressione cash flow una volta da qualche parte. Suonava esattamente come mi sentivo in quel momento.

Ero riuscito ad accaparrarmi l’ultimo tavolino del caffè con giardino del centro storico. Con uno scatto grazie al quale avevo battuto di un palmo una famiglia di turisti composta da cinque persone. Se ci si poteva sedere al mio tavolo, mi chiese il capofamiglia. Feci un’espressione tale che lo spinse a girarsi senza dire una parola e a contrastare coraggiosamente le grida dell’amata indicando con il braccio teso in direzione di un’altra via. Là dove, secondo un’antica tradizione, gelato e Coca Cola scorrono a fiumi.

Sfogliai il giornale sportivo rosa. In modo abbastanza distratto. Il cameriere, prossimo all’esaurimento nervoso, non mi aveva ancora portato il vino bianco. E nel mio corpo sembravano esserci ancora fonti nascoste da cui il sudore sgorgava a fiotti sulla superficie.
Pagina uno era dominata dal quesito, se El Pibe sarebbe rientrato a Napoli questo o il prossimo fine settimana dalla sua settimana bianca in Argentina. Per iniziare finalmente l’allenamento. El Pibe era Maradona, la mano divina, e si trattava bene. Era a sciare da qualche parte nelle Ande. Al posto suo, neanch’io sarei tornato a Napoli. Per lo meno non a metà agosto e con questo caldo boia. Ma io non ero Maradona, il prediletto degli dei e attualmente di proprietà del SC Napoli.

„Allora, Tschenett?"
In un primo momento non alzai nemmeno gli occhi dal giornale. Chi anche fosse, mi stava disturbando proprio mentre immaginavo candidi pendii innevati giù dai quali era così meraviglioso scendere con la slitta, in modo così divinamente goffo da cadere ogni paio di metri finendo nella neve. E quella era dolcemente rinfrescante, bagnata, fredda e gelata.
Poi in un qualche recondito angolo del mio cervello si mosse un ricordo. Quella voce la conoscevo. E poi ne fui certo: era la voce di quello sbirro che voleva affibbiarmi un cadavere. Alzai lo sguardo.
„Buona sera", disse lo sbirro.
„Se non si può farne a meno", dissi. "Cosa c’è oggi? Ancora un cadavere per cui cercate un responsabile? Appioppatelo pure a me. Facciamo un conto unico."
„Keine Angst. Niente paura. Si tratta ancora dello stesso cadavere."
„Il mio, per cosìddire."
„Tschenett, senta: Ich tu nichts als meine Arbeit. Io faccio il mio lavoro. Niente di più, niente di meno. E ho un cadavere. E ora che sono sicuro che è stato ammazzato mi serve a maggior ragione un assassino."
„Perché?" dissi. „Ieri non era ancora del tutto chiaro che si trattava di un omicidio?"
„No."
„Aha, era solo per farmi paura."
„Oggi è un omicidio. Perciò…"
Ci rinunciai. Se volevano addossarmi qualcosa, potevano farlo. Ma smetterla di rompere con questa storia. Almeno finché non avessero avuto qualcosa in mano e mi avessero messo in galera.
„Beve ancora un bicchiere?"
Adesso arrivava la carota. Perché no. Annuii. Lo sbirro ordinò due bianchi. La sua gentilezza e il suo darmi del Lei cominciavano a starmi sulle palle. Da parte degli sbirri non mi faceva piacere. E non c’ero neanche abituato.
„Le dice qualcosa il nome Franco Quagliato?"
Non mollava.
„E’ il cadavere."
„E come fa a saperlo?"
„Perché altrimenti non mi avrebbe chiesto se lo conoscevo, o sbaglio?"
Mi ero salvato in corner. Nell’ultimo istante. Allora la piccola aveva ragione.
„E cosa le dice il nome Paolo Canaccia?"
E questo cosa centrava adesso?
„Canaccia? Al momento niente."
Attenzione, Tschenett. Da qualche parte invece avevo già sentito quel nome. In una qualche occasione. Ma quando?
„Grazie", disse lo sbirro, prese i bicchieri dalle mani del cameriere, me ne porse uno e brindò.
„Paolo Canaccia: Nie gehört? Mai sentito?"
„No, non che io sappia."
Dovevo liberarmi dall’angolo in cui mi aveva spinto lo sbirro.
„Cosa intendevate fare oggi a mezzogiorno? Adesso non volete neanche più lasciarmi dormire in pace?"
„Oggi a mezzogiorno?"
„Esatto. Non faccia finta di niente, dopo che avete strappato un uomo stanco morto dal sonno profondo. Per niente e ancora niente. Solo per mettergli sottosopra la casa."
Era diventato attento. E io ero sgusciato dall’angolo. Visto, sbirro, quanto in fretta vanno le cose.
„Non capisco."
„Neanch’io ho capito cosa volevate."
„No, sul serio.Di che parla?"
Per quel che mi costava. Se non voleva altro.
„Di che parlo? Parlo del fatto che questa mattina cinque finanzieri mi hanno tirato giù dal letto, soltanto per buttarmi all’aria l’appartamento per cercare qualcosa che poi comunque non hanno trovato. Capito? Io a letto, ronf ronf, poi tock tock alla porta, mi alzo, cinque omini dentro, mettono sottosopra tutto, poi via. Ah, e a Paganotto, il colonnello del primo piano ho anche offerto un caffè. Per lui almeno ne è valsa la pena. Anche se il collega non era per niente soddisfatto di lui."
„Quale collega?"
„Quello al telefono, Zaggler o Ziggler o come diavolo si chiamava."
Lo sbirro si grattò brevemente la testa. Inclinò il capo e mi guardò. E poi il suo sguardo scomparve non si sa dove.
„Ziggler", disse, „Ziggler."
Poi rimase di nuovo in silenzio per alcuni istanti.
„Non ho niente a che fare con questa storia", disse lo sbirro.
„E la visita dal mio capo? Da quando sono comparsi i finanzieri sono senza lavoro. Non che lavori volentieri. Però…"
„Il collega Ziggler è dell’antidroga. E con la denuncia per droga io non ho niente a che fare. Comunque strano che si interessi a Lei."

Strano, aveva detto lo sbirro. E ancora non sapeva che nel mio appartamento i finanzieri cercavano palesemente più che altro una cosa: qualcosa di femminile.
Ora non solo ero fuori dall’angolo, ma avevo perfino lasciato il ring. E lo sbirro mi aveva lasciato andare. Aveva un effetto sbalorditivo, il collega Ziggler. Stava al telefono da qualche parte sullo sfondo e faceva ballare le marionette.
„Evvabbene", disse lo sbirro, „vedremo."
„L’importante è che non succeda più. Dopo una perquisizione faccio sempre fatica a riaddormentarmi."
„Non posso garantire nulla."
E sorrise davanti a sé. Poi sembrò aver scoperto qualcosa.
„Ah, Canaccia. Molto bene", disse.
E ora cosa stava succedendo?
„Guardi laggiù. Riconosce qualcuno?"
Mi girai. Dalla zona pedonale stava arrivando un intero sciame di persone. Trascinati per le vie eccitati e urlanti. Sembrava che stessero festeggiando qualcosa.
Mi rigirai. Per persone che con questo caldo giravano per le strade gridando e saltellando non avevo alcuna considerazione. Non erano semplicemente sulla mia lunghezza d’onda. Non l’avrei capito in tutta la mia vita. Come si poteva sopravvivere a una cosa del genere e magari divertirsi anche.
„E allora?" dissi.
Era sicuramente stata una manovra diversiva da parte sua. Ma non aveva funzionato.
„Sta arrivando Canaccia."
Eccolo di nuovo, quel nome.
„Chi è Canaccia?" dissi.
Mi girai. E così per prima cosa la mia domanda aveva una risposta. Perché lì, in mezzo al nugolo di gente che lo accerchiava, avevo visto Paolo. Il benefattore che mi aveva rifornito di canne e whisky. L’autista della Ferrari. Il pizzaiolo berlinese, il piede zoppo del Hertha BSC.
E poi si accese la lampadina. Paolo era Paolo Canaccia. E il cavallo pazzo della capolista AS Roma. La star della stagione 88/89. L’uomo dei goal. E delle montagne di soldi. Paolo.
Lentamente si avvicinavano. I fans non mollavano. Canaccia era a loro portata. Volevano estorcergli un autografo e dargli qualche consiglio per la stagione imminente. Era da molto che aspettavano questa occasione.
L’AS Roma come gli anni passati, a ferragosto era venuta in ritiro a Vipiteno. E con essa i fan romani. Soprattutto quelli di sesso femminile.
„Allora Tschenett?" disse lo sbirro.
„Canaccia", dissi, „ Non avevo collegato il nome al volto. Per me era Paolo. Non altro. Non riesco a ricordarmi niente di quello che leggo nei giornali. Tanto meno i volti sulle fotografie. E il televisore non ce l’ho."
Paolo era arrivato alla nostra altezza. Una donna seduta al tavolo vicino al nostro si alzò e gridò: "Paolo guardami, dai Paolo. Per favore." Stava per avere un attacco isterico. E quando finalmente Paolo si girò verso di lei gettandole un mezzo sorriso, il marito dell’isterica come un pazzo scattò una fotografia. Baciò sua moglie. E si lasciò cadere deliziato sulla sedia.
„L’ho beccato", balbettò. Sua moglie era ammutolita e si toccava la testa.
Poi lo sguardo di Paolo e il mio si incontrarono. Sembrò riflettere brevemente. Poi ridacchiò.
In quell’istante vidi la donna al suo fianco. Altrettanto bionda come Paolo. Alta e slanciata. E una vera e propria bellezza. Dunque era lei. La seconda metà della coppia da sogno dell’anno. Perfino io avevo sentito qualcosa del matrimonio. Paolo Canaccia, star attaccante dell’AS Roma, che quest’anno per la seconda volta era alla guida del campionato italiano, Canaccia, l’idolo dei giallorossi, figlio di un meridionale che a Berlino era diventato pizzaiolo. Paolo Canaccia, che si era innamorato, fidanzato e poi convolato a nozze con Maria Mercedes Fosco, unica e ben custodita gemma dello zar dell’editoria Francesco Alberto Fosco. E tutto questo in soli quattro mesi. Fin dall’inizio tutta l’Italia aveva seguito la vicenda col fiato sospeso. L’avrà, o non l’avrà? E soprattutto: lei avrà lui, o non l’avrà? Papà Fosco inizialmente non era sembrato particolarmente entusiasta di questo giocatore di pallone. Ma alla fine aveva trionfato l’amore. E loro si erano avuti l’un l’altro. Finalmente. E questo con il plauso di tutti. Se mi ricordavo bene la giovane coppia era ancora molto fresca. Erano insieme al massimo da una mezza stagione. E ora passeggiavano per il centro pedonale della cittadina di provincia e tenevano corte. Sorridendo benevolmente. E i fotografi della stampa e i cameramen non se li lasciavano sfuggire neanche per un istante.
L’orda passò oltre.
„Cosa avete fatto lì, voi due?"
„Come scusi?"
Era lo sbirro. Giusto c’era anche lui.
„Che cosa avete fatto là quella sera, Lei e Canaccia?"
Cosa mai avevamo fatto?
„Niente di speciale", dissi. La sua macchina non andava più, mi ha fermato, gli ho dato un passaggio."
„E il suo stato?"
„Che stato?"
„Sobrio non era nessuno di voi due al bar dell’area di servizio."
„Non so neanch’io", dissi. „E’ successo così."
„Aha. Sapeva dov’era stato prima il signor Canaccia? Prima che Lei, come dire, l’avesse preso a bordo?"
Faceva di nuovo molte domande, lo sbirro.
„Ist das ein Verhör", dissi, "è un interrogatorio?"
„No," disse, „per niente. Solo un paio di domande. Allora?"
„Non lo so. E non mi interessa neanche", dissi. „E a voi ancora meno."
„A noi?"
„Agli sbirri."
Aveva fatto una domanda troppo stupida.
„ Lei lo sa, come è morto, il Quagliato?"
„Chi?"
„Franco Quagliato."
Adesso ricominciava.
„Come faccio a sapere come è crepato?" dissi.
„Bene, allora glielo dico io. Così Lei poi lo può raccontare al suo amico. Allora: tutto faceva pensare ad un overdose. Semplicemente. Finché il medico legale non ha scovato i lividi sulla nuca. Appena sotto l’attaccatura dei capelli. E cosa ci dice questo?"
„Cosa ci dice?"
„Che si è trattato di un lavoretto pulito. Un colpo mirato. Quasi da professionista."
„Questo non può che farvi piacere", dissi. „Avere sempre a che fare con dei dilettanti dev’essere piuttosto noioso."
Lo sbirro mi guardò per un po’. E non si mosse. Come se si fosse addormentato. O appena atterrato su un altro pianeta.
„Tschenett," disse poi lentamente, „c’è qualcosa che non quadra. Ancora non ci vedo del tutto chiaro."
Passava il bicchiere vuoto da una mano all’altra.
„Nella scheda su di Lei mancano un paio di anni. E io non so perché. Per ora."
„Non appena lo saprà, me lo dica. Mi interesserebbe proprio sapere cosa c’è nei vostri atti di merda."
„Meno di quanto non creda", disse lo sbirro.
E poi si alzò.
„Ci vedremo ancora", disse. „Purtroppo lo devo risolvere quel caso. E’ il nostro compito. Quello di risolvere i casi."
„Wenn’s sein muß", dissi, „faccia pure."
„Non è niente di personale."
Poi andò via. Si girò ancora una volta. E ritornò al tavolo.
„Tschenett", disse, „Seite drei. Lesen Sie. Controlli un po’ a pagina tre. Sarà una piacevole sorpresa per Lei."
E poi se ne andò. Lo seguii con lo sguardo.
Andai a pagina tre del giornale sportivo e lessi. E mi venne da ridere. Aveva dello humor, quello sbirro.
L’amico Paolo Canaccia era in difficoltà. C’era scritto che dopo l’ultima partita della passata stagione avevano trovato tracce di cocaina nelle sue urine. E quella non era neanche la prima volta.
Sembrava avere un debole per la bella vita, il collega. E aveva avuto sfortuna. Proprio come me. L’avevano beccato. Proprio come me. Ma da quello che c’era scritto nel giornale aveva buone probabilità di cavarsela con due mesi di interdizione dai campi da gioco e una multa in denaro. Devolvibile ad una associazione di beneficenza. Un paio di milioni di lire. Non erano niente. In confronto ai miliardi che guadagnava. Proprio come me.
(…)




Capitolo XXXV

Berta era intenta a dar da mangiare alle galline.
„Mettila nel mio letto“, disse.
„Per favore, Berta, non lasciare che esca di casa. Non sta bene. Tra un paio di ore sono di nuovo qui. E allora le darò ciò di cui ha bisogno. Diglielo se si sveglia. Promesso?“
La piccola era nella mia macchina e dormiva. La portai nella camera di Berta.
„Le vuoi bene?“ disse Berta.
„Non lo so“, dissi. „Non lo so. Forse mi fa soltanto pena.“
„E’ troppo poco“, disse Berta. „Per lei e per te. Troppo poco.“
„Lo so“, dissi.

„Non mi importa, voglio parlare con lui. Sveglialo. Fai quello che vuoi. Ma passami Grossmann al telefono.“
„Ma sono appena le sette del mattino. Non posso svegliare il signor Grossmann a quest’ora.“
„Eccome se puoi. E’ una questione di vita o di morte. Della sua vita. E della morte di un paio di altre persone. Quindi sbrigati. Sennò mi tocca mandare da quelle parti la polizia.“
Non avrei certo lasciato che il mio piano fosse messo sottosopra da un portiere di notte troppo premuroso.
Cinque minuti dopo avevo al telefono un signor Grossmann estremamente scontroso. Non potevo dargli torto.
„Grossmann, buon giorno. Parla Tschenett.“
„Che ore sono?“ disse Grossmann ancora non del tutto sveglio.
„Troppo tardi, Grossmann. Svegliati. E ascoltami attentamente.“
„Vai a fan culo, Tschenett.“
„Non riattaccare, vecchio tossico. Devo dirti qualcosa di importante.“
Adesso si era svegliato.
„Cosa c’è?“ disse lentamente.
Te ne accorgerai subito, Grossmann.
„Primo: la piccola è sopravvissuta. E ora è in un posto sicuro. E secondo: oggi tra le undici e le dodici andrai alla festa cittadina. E porterai un piccolo pacchetto regalo. Con dentro un paio di lettere e di fotografie. Altrimenti tutto il mondo verrà a sapere che sei un tossico. E questo non sta bene per uno che è sia un capitano degli Schützen che un uomo tanto in vista come te.
„Tschenett…“
„Non mi interrompere. Ascolta semplicemente quello che ho da dire. E poi riflettici. Sono affari tuoi, dopo.“
Grossmann tacque. Bravo. Aveva dunque capito di cosa si trattava.
„Alle undici voglio vederti sotto la torre cittadina, Grossmann. Con quella roba. E poi dimenticatene il più in fretta possibile. Dimentica tutto. Altrimenti ti meraviglierai con quanta velocità la gente è pronta a saltarti addosso. Prova ad immaginarti: un Grossmann tossico. Il papà sì che sarà contento. E il fratellino del cuore. E il partito. Eccetera. Ti meraviglierai di quanto i tuoi pari possano odiare un misero tossico. Basta anche solo la voce che tu lo sia. E ti distruggono. Te e le tua sacra famiglia. Siete nella merda fino al collo. E come. Se non corri ai ripari.“
Feci di nuovo una piccola pausa. Doveva avere il tempo di pensare.
„Capito?“
„Capito.“
„Bravo, Grossmann. Dormi ancora un po’. Ma sii puntuale. E pettinati.“





Capitolo XXXVI

„Ganz sicher? Ne sei certo?“
Paolo mi guardò intontito e dubbioso. Ero contento di non aver dormito per niente. Così mi riusciva più facile rimanere sveglio.
„Al cento per cento“, dissi. „Verrà. E non avrà il coraggio di farsi delle copie. Perché facendolo le cose non migliorano. Un tossico non cambia tanto in fretta.“
„Speriamo.“
„Tranquillo“, dissi. La piccola. Sabrina. La roba. Giusto.
„Dammi un po’ di soldi, Paolo. Un acconto. Ok?“
Paolo sogghignò.
„Spese? O paga?“
„Considerala una spesa.“
Ora dovevo solo ancora incontrare uno di quegli avvoltoi di spacciatori.
Quando la banda arrivò marciando nella piccola piazza, Candalostia ci aveva raggiunti.
„Mi sai dire come procede?“ dissi.
„Dopo la banda arrivano gli alpini. E ancora un paio di gruppi. Associazione combattenti e vittime della guerra e così via. Poi gli Schützen. E poi il sindaco ringrazia la AS Roma. E può ben farlo. Quest’anno sono costati alla città soltanto centoventi milioni.“
„Embeh!“ disse Paolo.
„E poi c’è la premiazione della tombola della festa del paese. Tutto qui.“
„Saresti una buona guida turistica, Candalostia“, dissi.

Intanto la piazza cittadina era già piena zeppa.
Il più giovane dei Grossmann entrò marciando nella piazza alla testa dei suoi Schützen. Fino davanti alla tribuna. Giratevi. Fermi. Attenzione tutti. Faceva una bella figura, il tossico, con la sua bella uniforme da Schützen. Soprattutto con quegli eleganti stivaletti. Un po’ imbellettato, ma comunque. Un onesto giovane uomo. Una speranza per il futuro.
Quando l’AS Roma arrivò in piazza tra gli applausi entusiasti della folla, Paolo sparì e rientrò nelle file.
Il sindaco si inchinava davanti ad ognuno dei calciatori e li esortava a salire sulla tribuna. Un oratore declamava di volta in volta al microfono il nome dell’eroe. E il popolo applaudiva. Quando toccò a Paolo, ci fu un boato. Se avessero saputo.
„Quanto dura ancora, Candalostia?“
„Presumo che manchino soltanto ancora il discorso e l’assegnazione dei premi.“
Si era sbagliato. Dopo il discorso del sindaco fu donato ad ognuno dei giocatori un grembiule blu da contadino ricamato per l’occasione. Ci volle del tempo.
Poi spuntò Totò.
„Allora?“
„Allora nix“, disse Totò. „Rotture di palle. Il capo mi ha convocato da lui. Vengo trasferito al Brennero per punizione. In Siberia. A fare dei cenni ai turisti. Sarà un inferno. E ci sarà un’inchiesta interna. Perché dicono che abbia torturato il Sopplà.. Pestato e così via. E oltre a questo dicono che abbia sottratto della droga.“
„L’hai fatto?“
„Il tuo paio di grammi nuotano già da molto nell’Adriatico.“
„Che gentile da parte tua.“
„Ma non farti più beccare.“
Totò guardò brevemente nella piazza e fece una faccia schifata.
„Io finisco in Siberia“, disse a bassa voce e aggiunse, „e il nostro amico dell’antidroga va a Bolzano alla centrale.“
„Miami?“
„Esatto. Ha fatto proprio carriera negli ultimi due giorni, il Ziggler. Da oggi è il capo della sezione antidroga.“
Poi si girò e se ne andò. Totò Giurato. Sbirro trasferito per punizione. Il primo tutore dell’ordine che considerassi un essere umano. Sulla via per la Siberia.
Mi avvicinai facendomi largo tra la folla. Se proprio dovevo, volevo partecipare veramente. Ad un paio di metri da me c’era Grossmann alla testa dei suoi uomini, per così dire come picchetto d’onore. Sulla tribuna c’era Paolo che salutava il pubblico. E il sindaco pregava un paio di altri ospiti d’onore di salire sul podio. Il vecchio Grossmann. Il generale. Ancora un generale. Il comandante della polizia. Il decano. E il vincitore della tombola. C’erano tutti. Avevo visto perfino Ziggler.
„Der Carabiniere-Kapitän Herr Tosato, Kommandant der hiesigen Carabinieri-Station, der nach sieben langen Jahren, die er in und für diese Stadt gearbeitet hat, uns verläßt, um nach Sardinien zu ziehen. Il capitano dei Carabinieri Bruno Tosato, comandante della compagnia dei Carabinieri di Vipiteno, che dopo sette anni di lavoro per e in questa città ci lascia per trasferirsi a Porto Torres. Il primo premio, una Fiat 126, abbinato al numero duemilacinquecentoventuno, viene assegnato al comandante Tosato e a sua moglie.“
Era incredibile, ma il carabiniere sembrava davvero essere felice quando il sindaco gli consegnò le chiavi della 126.
„Con questo concludiamo i festeggiamenti ufficiali. Auguro a tutti gli ospiti e ai nostri concittadini un piacevole proseguimento della festa.“

„Ciao Grossmann. Proprio bella l’uniforme che hai addosso. Elegante, proprio elegante.“
Il capitano degli Schützen aveva congedato i suoi uomini mandandoli a bere birre e si era fermato ad aspettare. Vedi Grossmann, quanto alla svelta si può finire col fare affari insieme.
„Smettila, Tschenett. Non ho molto tempo.“
„Immagino. Con tutta la gente importante che gira.. Un nobile membro della nostra società come te non può certo mancare. Lo capisco. Dipende solo da te quanto tempo ci mettiamo. Un minuto. Due ore. Degli anni. Dipende tutto solo da te.“
Grossmann estrasse una busta dalla sua uniforme.
„Ma poi non voglio più sentire niente di tutta la storia.“
Teneva ancora fissa la busta. Come se potesse ancora aiutarlo. Dovetti prendergliela dalla mano.
„Anche questo dipende solo da te, Grossmann. Lascia in pace Paolo. Dì a tuo fratello che lasci in pace sua moglie. E saluta da parte mia il signor padre.“
„Non esagerare, Tschenett.“
„Non ti preoccupare.“
Avevo aperto la busta e stavo controllando. C’era tutto.
„Bravo Grossmann.“
Poi si avvicinò a noi Ziggler.
„Allora?“, disse sogghignando, „tutto in ordine?“
Grossmann sembrò molto contento di avere compagnia.
„Vi lascio soli“, dissi. „State così bene l’uno con l’altro che io stonerei.“
„Tschenett, attenzione“, disse Ziggler continuando a sogghignare. „Ti tengo d’occhio.“
„Questo davvero mi tranquillizza, Miami. Congratulazioni per la promozione, stronzo.“
Via di qui. Prima che mi senta male.
(...)










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Grobe Foul Haymon Tb

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Un grave fallo
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