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Stand 09.03.2011



Il morto nella roccia


Romanzo.  Haymon, 1993. Diogenes Tb, 1999. Haymon Tb, 2011
Traduzione di Susanna Piccoli


Capitolo I

Quando lo vidi per la prima volta, era morto. Quando lo vidi per la seconda volta era ancora morto. E per me era diventato piuttosto pericoloso. Nei giorni tra i due incontri avrei visto ancora dell’altro, ma non del tutto involontariamente e non proprio in uno stato di totale innocenza. Ce n’era abbastanza da non invidiare né i morti né i vivi.
Questo qui era semplicemente morto. Così lontano dalla vita come non mai. Ma che altro si poteva pretendere da quest’uomo.
Nella galleria avevano appena fatto saltare cinque metri cubi della migliore e più massiccia roccia alpina. Erano qui per questo dopo tutto.
Erano stati mandati nella valle di Fleres per scavare un buco attraverso la montagna. Un giorno dopo l’altro. Avevano praticato nella roccia dei piccoli fori, e li avevano riempiti di esplosivo. E predisposto il detonatore. Poi la galleria era stata sgomberata. L’onda d’urto aveva fatto uscire della polvere dal tunnel. Cessato allarme. Erano di nuovo entrati per asportare il materiale di risulta. Il cane del maso vicino si quietò di nuovo. Fino alla volta successiva.
Avevo assistito già spesso a questa scena qui al cantiere della galleria.
Perché già spesso ero rimasto qui a farmi venire i piedi piatti a forza di aspettare. Venivo convocato, e non c’era niente da venire a prendere. E’ sempre lo stesso noioso giochetto. Quando le ditte di trasporti ingaggiano uno come me, è soltanto, perché sono in grandissime difficoltà con i loro termini. Allora prendono perfino un idiota mal sopportato come me. L’importante è che ce la faccia a salire sul camion. Come, fa lo stesso. Accettare un lavoro del genere significa: caricare oggi e consegnare ieri l’altro. E poi un impiegato qualunque confonde i termini. E allora si sta per delle ore gratis vicino ad un camion vuoto, e si aspetta che finalmente lo carichino.
A una cosa del genere ci si abitua. Ad altre no.

Questa volta ci furono delle grida. Tutti corsero. In direzione della galleria.
La cosa in realtà non mi riguardava. Ma dopo tutto qui conoscevo abbastanza bene alcuni degli operai italiani. Dalle partite a carte. Corsi anch’io all’interno del tunnel. Per buoni cinque minuti. In quel buco oscuro. Quando finalmente arrivammo in fondo alla galleria, sotto i detriti alti fino al ginocchio potemmo scorgere un uomo in abito nero. Era steso lì dove in realtà non poteva esserci altro che roccia esplosa.
All’inizio non si vedeva molto dell’uomo. Gli operai spostarono a mani nude i pezzi di roccia più piccoli. Non volevo immischiarmi, qui la faccenda era di loro competenza. Avevo quindi il tempo di guardare più attentamente. Ciò che ora si poteva riconoscere dell’uomo era l’aspetto da lavapiatti con relativa carriera quindicennale nel settore alberghiero transalpino. Segnato senza speranza. E da quel che sembrava, portava ancora il suo completo da prima comunione. Da vent’anni. A righe, e con le maniche troppo corte di un paio di centimetri. Il volto era coperto di polvere. Come quello di una signora molto in là con gli anni, coperto da uno spesso strato di cipria. Non lo conoscevo.
Come sempre alla vista di un morto diventavo tranquillo; e non riuscivo a liberarmi dalla sensazione di nausea.
„Cielo", dissi, „e perché mai?"
„Non gridare, schrei nicht" disse Santini, il caposquadra, dietro di me.
Nell’umida oscurità che c’era qui dentro non lo avevo neanch’ancora notato. Schrei nicht, pensai. Ma come, Santini. Alcuni giorni prima avevo perso con lui tanti di quei soldi da avere il diritto di gridare per giorni qui dentro.
„Bringt nichts", disse Santini, „non serve a niente".
Aveva detto la stessa cosa quando volevo farmi prestare dei soldi per continuare a giocare. Per essere un italiano Santini sa essere terribilmente brusco. Questa volta dovetti dargli ragione. Qui davvero non poteva servire più niente. Per lo meno non al momento.
Il morto aveva nella mano una valigetta ventiquattrore. Neanche più morire pareva che si potesse senza quegli orribili oggetti. Gli operai tentarono di liberare il cadavere muovendo i massi più grossi con dei pali. Se non si volevano rompere tutte le ossa al morto, era una faccenda terribilmente complicata. E per un qualche motivo lo volevano estrarre da lì il più intatto possibile. Forse era semplicemente il loro modo di esprimere compassione.
L’aria lì dentro era umida, e calda. Si sudava a far niente. Io per lo meno. Per me era un mistero. Ciò che tutti noi non capivamo era: Come, in quale dannatissimo modo era finito nella roccia quel corpo?
„Scheiße. Qua qualcuno cerca di fotterci." Disse Santini, il caposquadra.

Mesi prima c’erano state dei problemi in un tratto più vicino all’uscita della galleria, perché trivellando era venuto loro addosso un intero torrente. Per questo poi sul lato al sole della valle di Fleres mancò all’improvviso l’acqua. Cosa che era particolarmente grave, perché ora si era costretti a bere l’acqua del lato in ombra. E quella, su questo punto era unanime la gente del lato al sole, non sapeva di niente.
Ma questa qui era un’altra cosa. Nel punto che avevano fatto saltare oggi, la roccia era così massiccia come solo un addetto ai lavori poteva augurarsi.
Era una situazione un po’ singolare. C’erano circa 15 uomini in una galleria finita a metà. Tanto in profondità dentro nella montagna quanto si erano fatti strada come delle talpe negli ultimi mesi. E io, un impedito autista di ripiego ero lì. Davanti a noi l’ammasso di materiale appena fatto esplodere. E in mezzo un cadavere.
Nel loro lavoro gli operai delle gallerie avevano già visto dei cadaveri. Anch’io. Questo qui era un po’ fuori della norma.

Incidenti di merda, come quello del 1° maggio, esattamente una settimana prima, erano rimasti a tutti per molto tempo nelle ossa. C’erano state delle noie, allora. Nelle baracche abitative degli operai della galleria si era parlato molto, in modo concitato e ad alta voce. Era ovvio che volevano costruirsi una casa con i soldi di merda che qui si potevano guadagnare. Ma a un morto non serve una casa.
E poi, all’improvviso, tutti erano usciti dalle loro tane e si erano gettati su di loro per una giornata intera: Polizia, Carabinieri, Ispettorato del Lavoro, Sindacato e un prete operaio. Per un paio d’ore il sindacato aveva alzato la voce e aveva inviato un tipo emanciato e pallido che in una vita precedente doveva aver scritto un trattato grosso due dita sulla sicurezza del lavoro. Senza nemmeno storcersi l’indice nel farlo.
La ditta se l’era cavata parlando di destino, come se questo facesse parte del contratto. E senza trovare per il resto la benché minima responsabilità nel proprio operato. E quando mai. Mezzemaniche di merda. Qui al cantiere non avevano altro da dire su quelli là.
Gli operai sapevano che la quantità del loro stipendio aveva anche qualcosa a che fare con il fatto che questo poteva sempre di continuo trasformarsi in un lavoro infernale. Ma allo sbaraglio ci si faceva mandare malvolentieri. E che uno di loro proprio il 1° maggio venisse ucciso da un pezzo di roccia in modo così raccapricciante, era proprio troppo. Inoltre l’incidente aveva avuto uno spiacevole retrogusto di ineluttabilità. Qualcosa di un giudizio divino. Di un sacrificio umano. Nel bel mezzo del lavoro si era staccata una lastra grande un metro dalla volta della galleria. E si era schiantata con precisione millimetrica su uno degli operai.
Avevano semplicemente scaricato su di loro la fretta. E questa aveva sepolto uno di loro sotto di sé.

Per anni i lavori alla galleria erano stati trascinati per palleggi politici. I politici si erano comportati come se avessero avuto a che fare con l’opera del secolo. In realtà si trattava soltanto di costruire una nuova galleria ferroviaria. La vecchia aveva circa 100 anni. Gli ingegneri imperialregi di allora avevano costruito una curva sotterranea attraverso la valle di Fleres per facilitare alle tossicchianti locomotive a vapore il loro compito nell’ascesa al Brennero. Con una pendenza di 23 promille e un raggio della curva fino ad un massimo di 229 metri.
Per l’Europa moderna questo era troppo e troppo poco. La galleria nuova doveva avere un raggio maggiore per permettere velocità più elevate. Così semplice era. In realtà. E in condizioni normali. Ma le cose erano andate in modo completamente diverso.
Per quel che riguarda le gallerie si era piuttosto restii da questa parti. In effetti da circa buoni 30 anni ne era stata progettata una che doveva attraversare il passo del Brennero in profondità sotto la montagna. Il problema stava soprattutto nel fatto che il passo del Brennero era anche contemporaneamente un valico di frontiera. E non uno qualsiasi. Ma uno tra Tirolo, e Italia e chissà cos’altro. E passare sotto ad una frontiera del genere apparentemente non era possibile. Per anni si erano azzuffati e avevano intrigato su ogni cosa. E pro e contro. E in mezzo. Se proprio si era contro le gallerie, allora meglio subito contro tutte. Anche quella della Val di Fleres. Nel 1988 doveva in realtà essere già ultimata ed costata l’inezia di 90 miliardi di lire. Ora correva l’anno 1991 e quando la galleria sarebbe stata finita era scritto nelle stelle. Nell’ultimo anno all’improvviso gli era venuta fretta con la galleria. Molto probabilmente per gli stessi motivi per cui prima erano stati contrari.
Dopo l’incidente alcuni di loro avevano tentato uno sciopero. Inutilmente. Il sindacato era scomparso. E io avevo disdetto due viaggi presso la ditta Costruzioni-Emme-Bau. In seguito a questo la proprietaria della Costruzioni-Emme-Bau mi aveva dato del cane testardo. Può essere che avesse ragione. Non lo so.

Anche ora non sapevo necessariamente cosa stavo facendo. Nessuno mi aveva mandato qui. Avrei potuto aspettare fuori vicino al mio camion. Finché l’agitazione non si fosse placata. Invece stavo in una galleria alla quale le Ferrovie dello Stato italiane lavoravano da anni. E davanti a me c’era un cadavere.
Forse fare l’autista era diventato troppo noioso per me. Forse in questa zona immersa nei rododendri succedeva troppo poco per i miei gusti. O troppo. E io avevo perso il controllo su me stesso. Ma quando mai lo si ha.

Procedevano lavorando con prudenza. Come se questo qui fosse ancora in vita. Mentre gli operai spostavano un altro masso di roccia, la ventiquattrore diventava lentamente più visibile. Non avevamo dunque soltanto trovato un cadavere che non poteva essere più vecchio di un paio di giorni. Ma nelle cui mano vi era anche una ventiquattrore. Di pelle.

Qui, dove fino a poco prima non c’era che roccia massiccia e niente altro. E sopra le nostre teste una montagna che superava i 2000 metri di altezza. Sulla cui cima c’era ancora molta neve. Dopo tutto eravamo solo all’inizio di maggio. Avevo la netta sensazione che qui qualcosa non funzionasse. Solo non sapevo ancora che cosa.
Gli operai della galleria finora non avevano visto la ventiquattrore, perché erano molto occupati a liberare il cadavere. O forse semplicemente non li interessava. Forse sapevano anche fin troppo bene quello che facevano.

Nessuno disse niente, quando presi dalla mano del cadavere la valigetta. Si comportavano come se non vedessero. O forse non vedevano veramente niente. Due dita erano ancora relativamente strette attorno al manico. Tirai la ventiquattrore con uno strattone; cedette.
Gli operai si misero al lavoro per assicurare il tratto contro i crolli.
„Meglio che tu te ne vai" disse rivolto a me Santini, il caposquadra.
Era di nuovo comparso all’improvviso alle mie spalle. E ora mi abbagliava con la lampada frontale del suo casco. Meno male che lo conoscevo bene dalle partite a carte. Era sempre così. Brusco e a volte imperscrutabile. Santini girò la lampada verso l’alto e mi guardò. Non poteva non aver visto la polverosa valigietta nella mia mano.
„Non vorrei che ti trovassero qua. Vai."
„Già" dissi io. „Giusto quello che volevo fare. Das wollte ich gerade tun. Sparisco subito." E me ne andai. Verso l’uscita della galleria.

Non era proprio necessario che qualcuno dei tutori dell’ordine mi incontrasse qui. Avevo già avuto noie a sufficienza con loro. In tempi passati. Doveva bastare. E in realtà volevo trascorre le successive settimane e mesi il più tranquillamente possibile. Alla mia età era anche comprensibile. Trentotto anni erano un motivo più che sufficiente per cercarsi un posto al calduccio vicino alla stufa. Solo che avevo sempre sfortuna. La maggior parte delle volte era già occupato da qualcuno. Che faceva finta di niente.
(...)






Capitolo XXII

„Dank dem Himmel. Ringrazia il cielo per la tua parentela".
Totò sorrise compiaciuto e si passò più volte il dorso della mano sulla bocca. Per festeggiare questo giorno ci eravamo perfino messi una candela sul tavolo della cucina.
„Seriamente Totò" dissi. „Un vino come questo è una manna dal cielo in una zona di sofisticatori di vino come questa."
„Eh dai" disse Totò, „non è poi così tragica."
„Forse non così tragica", dissi, „ ma pur sempre tragica."
Come sperato, Totò era ritornato dalla visita dei parenti con un paio di bottiglie di vino siciliano di produzione propria.
Nell’arco dell’ultima ora questo, e i canederli alle ortiche ben riusciti mi avevano riconciliato con il mondo.
C’era ancora un canederlo. Totò e io ce lo dividemmo fraternamente. Il canederlo si ruppe da sé in piccoli, soffici e teneri pezzetti, non appena ebbe soltanto presagito la forchetta che aleggiava sul suo capo. Così doveva essere.
Le giovani ortiche scelte con cura, appena scottate e tritate grossolanamente, con cipolla dorata e un po’ di aglio, un uovo, latte, pane da canederli tagliato a mano e, questa era la cosa più importante, meno farina possibile. Poi impastato il tutto e fatto a forma di piccoli canederli pronti per essere gettati in acqua calda, appena in ebollizione. Non per un minuto di troppo.
Nella farina, lì stava il segreto. Bisognava limitare la farina. E’ pura colla. I canederli alle ortiche sopportano solo quel tanto di farina che è necessario perché, lavorati delicatamente, non si sfaldino. Tutto ciò che eccede questa quantità distrugge il gusto.
Con la storia, con cui avevamo a che fare negli ultimi giorni, era la stessa cosa. Solo al contrario. Qualcuno stava cercando di mescolare nell’impasto più farina possibile. Sembrava proprio che avesse paura che il canederlo gli si sfaldasse in mano. E aggiunge a piene mani farina. Anche se dovesse costare delle vite. L’importante è che la storia sia così compatta, che non si possa più sfaldare.
Non ho mai potuto sopportare i canederli collosi. Questo qui poi proprio per niente.
„Gut. Bene" disse Totò, „Ha qualcosa a che fare con i terreni. Può ben darsi."
Mentre bevevamo una sambuca che una volta avevo comperato da dei monaci nella Farmacia del Vaticano aggiornai Totò sugli ultimi sviluppi della faccenda. Comprese le carte del Prantl.
„Per lo meno è quello che penso", dissi. „E’ l’unico collegamento tra i due, per quanto ne sappiamo."
„Ma per un appezzamento di bosco di solito non si muore," disse Totò.
„In effetti no. Quindi deve esserci dietro qualcos’altro. E poi: quella gente è suscettibile. Non importa chi sono. Il Prantl, che si vede lontano un miglio che non farebbe male a una mosca, li ha spaventati così tanto che l’hanno ucciso. Nonostante facesse comodo per un credito di 150 milioni."

La sambuca in effetti non faceva per me. Troppo dolce. Ma i pii fratres della Farmacia del Vaticano conoscevano il loro mestiere. Quella roba scendeva e ti riempiva di spirito santo.
„Domani vado a dare un’occhiata al Tiroler Investment. Forse riesco a scoprire qualcosa," dissi, „e tu verifica i nomi da tedeschi veraci di Malfertheiner, Zöschg, Prantl, Pressack e …"
Merda. Ora non sapevo neanche come faceva di cognome la lady. Dopo tutte le altre cose che sapevo di lei.
„E chi?" disse Totò.
„Sai ben chi", dissi. „Controlla se hai qualcosa. Fammi il favore. E questo numero di telefono. Nel caso lo fosse."
Gli diedi il bigliettino di Prantl.
„Può essere che ci voglia del tempo, se nessuno se ne deve accorgere" disse Totò.
„E infatti non devono", dissi.

Avevamo giocato a carte per un’ora scarsa. Totò stava lavando i piatti, io ero steso sulla panca ad angolo nella cucina di Totò e riflettevo. Sulla mia digestione. Perché così era più veloce, come sapevo per esperienza personale.
All’improvviso mi trovai al buio.
„Dai, riaccendi la luce", disse Totò.
Il poveretto stava sicuramente lì con le mani piene di schiuma.
„Non sono stato io", dissi.
La luce del giroscale era ancora accesa. Andai in cantina. I due tappi di sicurezza dell’appartamento di Totò erano facili da trovare. Direttamente sotto i miei.
„Ciao, Tschenett".
Nell’angolo buio dietro di me si mosse qualcosa. Io tastai la parete per trovare l’interruttore della luce.
„Lascia stare", disse la voce.
Mi misi in posizione. Stai sciolto, sciolto sulle gambe. E ascolta. Lo senti per tempo, se arriva. Poi scegliti un punto. E colpiscilo. E stai sciolto sulle gambe.
„Che succede, non mi riconosci?" disse l’ombra.
In effetti era così. L’ombra che sgusciò fuori dall’angolo buio era uno dei colleghi di Totò. Un tipo per bene. Quel paio di volte che avevamo fatto insieme una partita a quattro a watten, un vecchio gioco a carte tirolese, era stato difficile fregarlo. Non voleva solo venirmi in mente come si chiamasse.
„Non mi riconosci? Sono Antonio."
Giusto. Antonio, detto anche Toni. Figlio di un carabiniere, approdato per protesta antiautoritaria nella nemica Polizia Stradale. Durante la sua giovinezza l’unico italiano nel pittoresco villaggio di Terento. Destino crudele. Ragazzo simpatico.
„Che fai qua?"
„Vengo direttamente dal lavoro."
„E allora?".
„Devo raccontarvi qualcosa."
„Qui? E adesso?"
„Sì." Toni sussurrava così piano che quasi non riuscivo a sentirlo.
„Sono proprio curioso" dissi, „racconta."
„Su al Brennero due ore e mezza fa abbiamo arrestato uno. Voleva espatriare, ma era sulla lista dei ricercati."
„E allora?" dissi „Fate pure. E’ nel vostro diritto. Così per lo meno sostenete voi."
„Non è tutto" disse Toni.
„Cosa succede qui?"
Era Totò. Se arrivava ancora qualcuno eravamo al completo per una partita a quattro.
„Il tuo collega qui sta giusto cercando di spiegarmi", dissi.
„E io che mi stavo già preoccupando seriamente, perché non ritornavi più." Disse Totò.
Lentamente, ma con passo sicuro, la paranoia sembrava espandersi sull’umanità. Sarebbe stato interessante osservare la sua avanzata su di me.
„Dai Antonio, andiamo di sopra", disse Totò.
„Meglio di no", disse Toni. „Non voglio che qualcuno mi veda."
„Che succede?" disse Totò guardandomi.
Gli raccontai quello che fino a quel momento avevo appreso da Toni. E Toni finì il suo racconto.
Dopo che era stato appurato che era ricercato, avevano tirato fuori il tipo dalla macchina. Nella macchina non avevano trovato niente di sospetto. Dopo una buona mezz’ora era arrivato Gerlacher. Aveva spiegato che la faccenda era di sua competenza. E poco dopo aveva lasciato la frontiera con l’arrestato, in direzione Austria.
„Gerlacher?" disse Totò.
„Sì", disse Toni, „Gerlacher. Per questo ho pensato che potesse interessarvi. Ho sentito come si è comportato quando ha eseguito la perquisizione qui da voi. Che stronzata. A un paio di colleghi non è piaciuto per niente. Il modo in cui il Gerlacher ha messo te e Tschenett sotto torchio è sembrato loro eccessivo. Solo perché è il capo della squadra speciale. Come se foste coinvolti in chissà che merda."
„Lo siamo anche", dissi, „ma il Gerlacher non ci arriverà mai. Approposito: e cos’altro sapete sul pupillo di Gerlacher?"
„Abbastanza. E’ ricercato da 15 anni come terrorista. Sospettato di attentati dinamitardi, associazione a delinquere, Ein Freies Tirol e così via. Come abbia potuto rientrare in Italia, per me è un mistero. Lo si riconosce subito. Perché gli manca mezzo orecchio destro."
La storia dell’orecchio per un momento mi fece mancare la parola.
„E come si chiama il tizio?" disse Totò.
Lentamente, ma con sicurezza, stavamo procedendo nella storia.
„Pirpamer, Adolf."
Ora aveva un nome l’uomo che negli ultimi giorni aveva gironzolato da queste parti, che era andato a trovare un contadino morto e uno spaventato e che aveva lasciato da Berta delle cupe minacce per me.
E Gerlacher aveva detto di non sapere niente di tutto questo. La squadra speciale. Con tutte quei permessi speciali e il resto.
Antonio era scomparso dalla cantina della casa Waldfrieden come era arrivato: clandestinamente. Ciò era dovuto meno alla paura di poteri oscuri che non al fatto che al momento non riteneva fosse consigliabile farsi vedere al di fuori delle ore di servizio con Totò e me. Tanto meno nella casa Waldfrieden di Maria Trens.

Totò e io non ci trattenemmo più a lungo. Per il giorno dopo avevamo entrambi da fare. E poi in effetti non c’era più niente da discutere. La faccenda era abbastanza chiara. Avevamo all’improvviso anche Gerlacher che tentava di incularci.
„Senti", disse Totò mentre lo salutavo, „mio zio mi ha chiesto, se non vorrei sposarmi."
„E allora", dissi, „non vuoi?"
„Ha una figlia adottiva. Tra un po’ sarà in età da marito" disse Totò.
„Non fa niente", dissi, „anche tu lo sei."
Totò mi guardò piuttosto inorridito. Apparentemente non gli avevo dato la risposta che si aspettava da me. Eppure sapeva che non nutrivo una grande considerazione nei confronti della sua avvocatessa yuppie. Per lo meno non accoppiata con lui.
„E’ meraviglioso", dissi, per consolarlo. „Sposala e ci trasferiamo tutti e due in Sicilia, nel caso qui dovesse scottarci la terra sotto i piedi."
„Vai" disse Totò, „vai. Verreck. E crepa!"
(...)






Capitolo XXXVII

Il tardo pomeriggio era un buon momento per bere un paio di bicchieri da Berta. Non era troppo pieno e Berta e io potevamo sfogarci in pace su dio e il mondo.
Ero andato a piedi da Colle Isarco su per la Val di Fleres. Quei tre quarti d’ora di cammino potevano aiutarmi. Dovevo ancora digerire Tamara. Avevamo avuto sfortuna. E Tamara aveva degli occhi maledettamente azzurri. Che sapesse in che storia si era cacciata con l’ingegner Pressack questo non potevo crederlo. O meglio, non volevo crederlo. Solo che per oggi non avrei più trovato una risposta a questa domanda. Neanche domani. Né mai. Non mi sarei mai più liberato dal sospetto. E questa non era una buona base. Non era proprio una base.

Da Berta c’era qualcosa che non andava. Era chiaro alla prima occhiata. Alla porta del suo bar era appeso un biglietto scritto a mano su cui era tracciata a lettere tremolanti la parola CHIUSO. Non avevo mai visto una cosa del genere da Berta. Dietro ai vetri semitrasparenti non si vedeva nulla. Non si sentiva neanche nulla. Bussai alla porta.
„Berta“, gridai, „Berta, sono io, Tschenett.“
Neanche quando si era ammalata aveva chiuso il suo bar. Mi stavo preoccupando.
„Berta, dai apri, sono io.“
Dietro alla porta si mosse qualcosa.
„Berta, sono io, Tschenett.“
Quando Berta apparve mi spaventai. Sembrava il fantasma di se stessa. Ingobbita, trasparente, una misera apparizione.

Avevo richiuso la porta dietro di noi, fatto sedere Berta al tavolo e versato due grappini. Berta stava seduta e scuoteva la testa.
„Cosa succede, Berta?“ dissi.
Durò un’eternità prima che potessi cavarle una parola di bocca. Sembrava avere una paura folle.
Dopo un terzo grappino finalmente avevo capito cosa era successo. Circa. Qualcuno stanotte l’aveva rinchiusa nella sua stanza da letto. E poi si era sentito provenire dal pollaio un baccano terribile. Al mattino poi era riuscita a liberarsi dalla sua camera. E era andata nel pollaio a vedere cos’era successo.
„Torno subito, Berta“, dissi e le diedi un bacio sulla fronte.
Quando ebbi visto cos’era successo nel pollaio capii l’orrore di Berta. Qualcuno aveva inchiodato alla parete le sue galline una per una. Questa mattina alcune di loro dovevano essere ancora vive.
Mi bastò uno sguardo per avere conferma di quello che avevo supposto. La valigetta era scomparsa.
Una delle galline di Berta si muoveva ancora.
Qui era stata all’opera una mente malata. Con freddo calcolo. Il pazzo sapeva piuttosto bene quello che faceva. Aveva rinchiuso Berta nella sua camera da letto, perché non potesse correre in soccorso alle sue galline schiamazzanti.
Da come le galline erano state inchiodate alla parete dovevano aver svolazzato e schiamazzato ancora per delle ore. E Berta, chiusa nella sua stanza, aveva dovuto stare ad ascoltare tutto questo per l’intera notte. Carica di brutti presentimenti. Che si erano trasformati in un incubo questa mattina quando finalmente era riuscita a liberarsi.
Il grottesco rito voodoo era stato progettato con precisione. In me crebbe lentamente, ma con sicurezza, una collera mai provata prima. Il massacro era indirizzato a me. E per colpirmi avevano scelto il mio punto più debole: Berta. La buona Berta che non sapeva far male a una mosca. Banda di porci vigliacchi.
Non riuscii a sopportare di restare un momento di più nell’obitorio in cui era stato trasformato il pollaio.
Berta era ancora seduta al tavolo del bar. E fissava il bicchiere di grappa. A intervalli regolari il suo corpo era attraversato da un fremito. Mi sedetti vicino a lei. E presi la sua mano nella mia. Restammo in silenzio.
Avevo sbagliato qualcosa. Le cose non sarebbero dovute arrivare fino a questo punto. Per me e la mia incolumità non mi ero mai preoccupato molto. Era stato tutto più che altro un gioco. Anche se serio. Avevo pensato di poterli prendere a calci nel didietro, quei ragazzacci. E che loro avrebbero reagito come persone normali, restituendomeli. Nel mio didietro. Ma mi ero sbagliato clamorosamente.
Qui avevo a che fare con gente per cui non c’era niente di sacro. E che non si fermava davanti a nessuna vigliaccheria. Questo non era più un gioco tra uomini, era puro scherno.
„Perché? Non avevano fatto niente a nessuno.“
La voce era uscita da lei in modo lento, sommesso e frammentato.
„Berta“ dissi, „ti prometto che non succederà mai più.“
„E’ già successo“, disse Berta.
Aveva ragione. E io mi sentii così miserabile e dannato come mai prima in vita mia.

Eravamo rimasti lì seduti per circa due ore, Berta e io. Senza dire una parola.
„Berta“, dissi infine, mi alzai, presi la bottiglia di grappa e versai, „Berta, devo di nuovo andare via per un po’. Un’ora, non di più. Perché questo non succeda un altra volta.“
Mi guardò in silenzio.
„E’ colpa mia“, dissi, „la valigia e tutte queste storie. Non dovevo coinvolgerti.“
Sapevo che anche questo non sarebbe servito a nulla. Avevano scelto Berta semplicemente perché era il mio punto più debole. Che nel suo pollaio avessi anche nascosto la valigetta era stato soltanto il puntino sulla i.
C’era una sola possibilità per proteggere in futuro Berta da simili porcate. Dovevo gettare la spugna. Ufficialmente. E in mezzo al ring. Davanti alla squadra riunita.
Era giunto il momento che andassi di nuovo a una festa campestre. Avevo rifiutato l’invito di Tamara. Per dei buoni motivi. Ora c’era un motivo ancora migliore per andarci: Berta.






Capitolo XXXVIII

Il tendone era già abbastanza affollato.
All’altezza della testa attraverso le file piene di gente aleggiavano banchi di nebbia fatti di birra, fumo e polka. Tamara non era ancora arrivata. In un tavolo nell’angolo avevo scorto Pressack, Pirmpamer, il pusterese, il picchiatore, il capo della Raiffeisen e un paio di altri. Mi appoggiai ad un banco e ordinai una birra. Me ne passarono un boccale da un litro. Questo è quello che odio delle feste campestri. Ma oggi non mi importava.
Pressack sembrava tenere corte. Era del migliore umore. Avrei potuto ucciderlo, quel porco. Se avessi potuto essere sicuro che con questo sarebbe finito tutto. Ma sapevo che era esattamente il contrario. Un altro come Pressack si sarebbe sempre potuto trovare. Per questo non era una soluzione. Ce n’era soltanto una. Qualcosa che i giapponesi chiamano Kotau.
La banda strimpellava la peggiore spazzatura musicale nell’aria soffocante, tutto intorno l’allegria strabordava dagli orli dei boccali di birra. L’odore di polli alla griglia mi rivoltava lo stomaco. Nell’angolo a fianco a me si appoggiò un turista che per la prima volta nell’arco della serata vomitò. Lo avrebbe sicuramente fatto altre tre o quattro volte.
Stavo ancora aspettando Tamara.
All’improvviso dal banchetto di polli alla griglia ad un paio di metri da me si sollevarono delle grida. Dietro al banco c’era il rosticciere davanti agli otto spiedi, tutto appiccicoso per via dell’unto, e teneva in mano un pollo surgelato che strapazzava gridando: „Lo uccido, lo uccido!" Con un movimento secco del polso lo sparò in diagonale attraverso la tenda. Si chinò, ne prese un altro da una cassa e tirò. Questa volta colpì in testa un pompiere. „Lo uccido!" urlò. „Quella troia mi ha tradito con uno della DDR. Una simile testa di cazzo socialista. Gli tiro il collo!" Prima che i carabinieri non l’avessero tirato fuori dal suo chiosco, aveva gettato almeno dieci polli sulle teste della gente. La musica che si era interrotta ricominciò con uno stacco.

Tamara era arrivata. Nella confusione non l’avevo nemmeno notata. Era ora di fare quel che andava fatto. Andai al tavolo nell’angolo.
„Buona sera", dissi e mi misi davanti a Pressack. Accanto a lui c’era Tamara. „Buon appetito, vedo che quei cosi le piacciono." Pressack aveva davanti a sé un pollo alla griglia. „Da oggi pomeriggio a me non vanno più", dissi.
Pressack mi guadò con un sorriso temerario, Tamara fece una faccia abbastanza confusa.
„Pressack", dissi, „sono qui per te. Per te, per i tuoi simpatici amici e per le galline."
„Si sieda e mangi con noi. Lei è invitato di cuore. Anche se non la conosco, prego, si accomodi."
„Me lo immagino", dissi, „i lavori sporchi li fanno gli altri. No grazie. E poi sai esattamente che sono Tschenett. Quindi lasciamo perdere i giochetti."
„Prego, come preferisce," disse Pressack.
„Tschenett", disse Tamara.
„No, Tamara", dissi, „tieniti fuori." Presi fiato profondamente. „Puoi subito tornare a rosicchiare la tua coscia di pollo, Pressack. Non ti interrompo a lungo. Solo una cosa. Primo, nel frattempo avete recuperato quello che volevate. E secondo, da domani vi sarete liberati anche di me. Mi cerco un paio di viaggi con il TIR che possibilmente durino a lungo e che mi portino il più lontano possibile da qui. E dimentico tutto di quello che ho scoperto sui vostri giochetti nelle ultime settimane. Tutto. Non dovete più preoccuparvi. Parlo seriamente. Soltanto una cosa: lasciate in pace in miei amici. Sia lui che lei. Entrambi. Capito?"
Pressack mi guardò sogghignando. Avrei preferito saltargli alla gola.
„Per capirci: giù le mani da Berta", dissi. „E’ tutto. Di più non voglio."
„E Lei è sicuro che si scorderà tutto il resto?" disse Pressack.
„Già fatto", dissi. „Ora tocca a te. E guai se non ti attieni agli accordi."
„D’accordo, d’accordo", disse Pressack. „E ora Si sieda con noi che le offro una birra."
„Meglio di no. Finisce comunque tutto nella tua boccaccia di merda, Pressack."
Mi girai e me ne andai. Dopo un paio di metri ritornai indietro.
„Tamara", dissi, quando fui di nuovo vicino al tavolo, „ è meglio che tu faccia come me. Dimentica semplicemente tutta la storia. In fretta. Dimenticala."
Era lì seduta e mi guardava. Guardava e basta.
„Abbiamo avuto una sfortuna dannata, baby", dissi.

E andai via. All’improvviso avevo fretta. Fuori davanti alla tenda della festa mi appoggiai ad un muro e vomitai.
„Il mondo appare subito molto più bello dopo", disse uno vicino a me, che aveva appena finito.
„Questo è il mondo", dissi e guardai ciò che stava per terra davanti a me.



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Tote im Fels Haymon Tb

cover

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Il morto nella roccia
traduzione italiana

Den døde i bjerget
dansk oversættelse


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